Quando si esce delusi da uno spettacolo e si ha il compito di raccontarlo, non è sempre facile razionalizzare e condividere le ragioni di quella delusione. È quello che è accaduto a chi scrive alla prima di Roméo et Juliette di Charles Gounod andata in scena lo scorso 15 gennaio al Teatro alla Scala di Milano. Ho provato a darmi delle risposte, tutte a loro modo parziali. Sarà la drammaturgia del libretto di Jules Barbier e Michel Carré, pallido adattamento a suon di scorciature brutali e scorciatoie banali di Romeo and Juliet di Shakespeare, di certo non aiutato dalla decisione arbitraria di collocare l’unico intervallo della serata tra la prima e la seconda scena del terzo dei cinque atti. Sarà l’allestimento firmato da Bartlett Sher per il Metropolitan di New York e presentato per la prima volta alla Scala nel 2011: una messa in scena convenzionale, fagocitata da una scenografia monumentale fissa (che rappresenta un rinascimento italiano evidentemente esotico per il pubblico statunitense dei musical ma piuttosto banale e storicamente ingiustificato per il pubblico italiano dell’opera).

SARÀ LA DIREZIONE un po’ acerba in termini operistici di Lorenzo Viotti, che, nell’intento pur legittimo di mettere in risalto le finezze melodiche e armoniche della partitura (affabilmente spiegate dal maestro nelle presentazioni al pubblico che precedono ogni replica), spinge tutta la dinamica dell’esecuzione verso il «forte», riservando un’attenzione altalenante alle voci dei solisti. Sarà la performance di Vittorio Grigolo nella parte di Roméo, tenore popolare in teatro e in Tv, ma ancorato a un’idea di prestazione attoriale basata su un’abbondanza e una generosità che puntualmente la rendono eccessiva e sguaiata: l’adolescenza e l’amore di Romeo non necessariamente trovano la loro espressione in una gestualità sopra le righe (con braccia perennemente aperte, salti sulle colonne, cadute in ginocchio) e in una esecuzione vocale sempre gridata o bisbigliata, come se nelle sfumature intermedie, che sono la sfera dell’esistenza umana, non ci fosse nulla di potenzialmente spettacolare.

SARÀ LA PERFORMANCE di Diana Damrau nella parte di Juliette, diva del belcanto transitata non sempre ragionevolmente ai ruoli da soprano lirico, per i quali le manca il registro centrale, quello a cui è affidata la componente più drammatica dei personaggi; peccato perché anche lei, di generosità e di competenza vocali e attoriali rare, penalizzata anche dal già detto volume dell’orchestra, è caduta nell’errore di pensare che una singola arietta virtuosistica (Je veux vivre, peraltro imposta a Gounod dal primo soprano che ha interpretato il ruolo: Marie Caroline Miolan-Carvalho) faccia del ruolo di Juliette un ruolo esclusivamente belcantistico. Menzione speciale per il baritono Mattia Olivieri (Mercutio) e per il mezzosoprano Marina Viotti (Stéphano), vocalmente e attorialmente freschi e corposi, ma non sufficienti a cancellare la sensazione di uno spettacolo privo di tono. Repliche fino al 16 febbraio.