Da 4 anni si erano perse le tracce di Vincenzo Bellini al Teatro alla Scala di Milano. Oltretutto la sua ultima opera messa in scena nel 2018, Il pirata, mancava da 60 anni. Non molto diversamente I Capuleti e i Montecchi, in scena fino al prossimo 2 febbraio, latitavano da 33 anni. Al 1989 risale la loro ultima presenza in cartellone, nell’allestimento di Pizzi con la direzione di Muti, meritevole di avere ripristinato la filologia della partitura, alterata 20 anni prima da Abbado, che aveva affidato il ruolo di Romeo a un tenore invece che al mezzosoprano previsto da Bellini.

MA LA STORIA de I Capuleti e i Montecchi è complicata fin dalla genesi. Nel 1830 a Bellini, che è a Venezia per una ripresa del Pirata, viene chiesto di comporre in tutta fretta un’opera nuova. Per finire in tempo, il compositore riusa materiali già esistenti: chiede a Felice Romani di riadattare il libretto di Romeo e Giulietta composto 5 anni prima per Nicola Vaccaj e per le musiche attinge alle sue partiture di Zaira e Adelson e Salvini. L’opera riscuote un buon successo, ma già dall’anno successivo diventa prassi comune sostituire il finale di Bellini, reo di essere ispirato «al principio della massima flessibilità formale, che permette di seguire momento per momento i trapassi psicologici del personaggio principale» (Toscani), con quello di Vaccaj, tradizionalmente strutturato in forme chiuse. L’assalto alla filologia della partitura comincia dunque subito dopo il debutto e alla Scala continua fino al 1861, dopodiché l’opera sparisce per più di un secolo. È noto che la trama del libretto deve meno alla tragedia di Shakespeare che alle sue fonti italiane (le novelle di Porto e Bandello), ai suoi adattamenti tardo settecenteschi (in particolare Les Tombeaux de Vérone di Mercier, da cui discende la trasformazione di Lorenzo da frate a medico) e alle convenzioni del teatro d’opera (come il triangolo lui-lei-l’altro ottenuto trasformando Tebaldo da cugino di Giulietta a suo promesso sposo).

L’ATTUALE allestimento è diretto da Speranza Scappucci, intervenuta a prove iniziate in sostituzione del rinunciatario Evelino Pidò, anticipando il suo debutto alla Scala, previsto il prossimo maggio con un concerto sinfonico. Direttrice musicale all’Opera Royale di Wallonie, Scappucci ha già diretto I Capuleti e i Montecchi 9 anni fa negli Stati uniti e qui, cercando di tenere insieme una macchina produttiva complessa, ne restituisce una lettura attenta soprattutto a preservare l’energia del giovane Bellini (che emerge subito nella baldanza marziale del preludio), ad anteporre il nitore alla ricerca timbrica e a equilibrare il rapporto tra buca e palco, agevolando il più possibile le voci dei solisti. Debutta al Piermarini anche il regista inglese Adrian Noble, con le scene di Tobias Hoheisel, i costumi di Petra Reinhardt, le luci di Jean Kalman e Marco Filibeck e la coreografia di Joanne Pearce. Dopo la sovrabbondanza dell’allestimento di Macbeth per mano di Davide Livermore in apertura di stagione, ci troviamo di fronte a uno spettacolo pasticciato e poverissimo di idee (nonostante quelle dichiarate nelle note di regia), nella formula tremenda di scene e costumi transtemporali e cantanti che deambulano e sbracciano per riempire le pause liriche del libretto. Nonostante ciò, colpiscono la delicatezza interpretativa e la forza tecnica di Lisette Oropesa e Marianne Crebassa, al debutto nei ruoli di Giulietta e Romeo: il finale, dolcissimo e straziante, ne è una prova. Ottimi anche il Capellio tuonante di Jongmin Park, il Tebaldo squillante di Jinxu Xiahou e il Lorenzo di Michele Pertusi.