L’incipit del film potrebbe essere quello di una serie tv americana sul mondo degli avvocati delle grandi corporation. Lo studio di design dai colori freddi, la finestra a giorno sui grattacieli, il tavolo con solo il computer portatile e la silhouette elegante del protagonista con lo smartphone in mano.

Ma, nella luce soffusa di una cena tra amici, emerge che l’uomo è parte di una comunità di attivisti gay e che non siamo negli Stati uniti, bensì in quella che lui stesso definisce «l’omofobica» Lituania, paese sopravvissuto ai nazisti e al dominio sovietico e giunto per primo all’indipendenza da quest’ultimo nel ’90, per poi aderire all’Ue nel 2004, ma anche Paese – tra quelli europei – in cui le discriminazioni per l’orientamento sessuale sono più aspre (in un recente sondaggio, insieme alla Croazia, si classifica ancor peggio dell’Italia, baciata in questi giorni dall’apertura di Papa Francesco, ma siamo vasi comunicanti…).

E non è questo l’unico stereotipo che si infrange in Advokatas di Romas Zabarauskas, giovane regista politicamente molto attivo in Lituania, nei giorni scorsi al XVIIIº Florence Queer Festival, al Cinema La Compagnia di Firenze, con la direzione di Bruno Casini e Roberta Vannucci.

C’è anche la cortina volutamente a luci rosse della pornografia gay online, una mole gigantesca di contenuti sessual-commerciali, che cade quando sul gigantesco televisore a schermo piatto di Marius (The lawyer), compare un sex worker che alla sua insolita richiesta di chiacchierare – di dove sei, dove di trovi adesso – risponde con franchezza che il suo Paese è la Siria e che vive in un campo rifugiati a Belgrado. E tu? Sei russo? No! si sdegna Marius, sono lituano.

Pure, la Lituania come luogo fisico appare poco o niente, se non attraverso la galleria d’arte di una ricca amica – tra le foto sulla «mascolinità» dell’artista Arcana Femina, quando Marius si imbatte in un ritratto dell’uomo incontrato in chat – o tra i boschi percorsi di corsa in macchina quando ha ricevuto per telefono dalla madre la notizia della morte del padre. Allora la Lituania è una tazzina di caffè che si infrange ai suoi piedi, un amaro impasto sonoro di sax e piano, è una stanza gravata di mobili antichi e di ricordi, nelle pillole per non sentire il dolore di una relazione che era stata spezzata dal suo coming out.

Allo stesso modo non apparirà la Siria se nel fuoricampo di un racconto di guerra. Perché sarà col suo «contatto» siriano che per primo Marius sentirà di confidarsi, allora svaniranno i nickname e Alì gli dirà di non sottrarsi a quanto sente. Il punto di incontro, la cartografia emotiva del loro uscire dal cliché della relazione virtuale, grazie al desiderio assoluto di Marius di vedere, di toccare l’altro oltre ogni irraggiungibile schermo, sarà allora Belgrado, coi suoi cieli grigi, il porticciolo, dove si daranno al jogging e la torretta sulla città emersa dalla guerra, luci lontane e l’esplicita richiesta di aiuto di Alì per essere ricollocato a Berlino a un Marius che però dice di non conoscere le leggi sull’immigrazione.

E se invece quest’ultimo deciderà di esporsi, presso ong o come avvocato a una funzionaria UNHCR… se entrambi – emozionanti gli attori Eimutis Kvosciaukas e Dogaç Ildyz – assaggeranno istanti di vita di coppia nell’hotel di Marius, pensando anche al matrimonio, illegale in Lituania (allora le immagini si fanno in bianco e nero come fosse davvero un film americano a lieto fine), le cose sono destinate a finire nel modo più disperato e prevedibile in questo mondo disgregato di conflitti e discriminazioni, oppure si possono immaginare vie di fuga – anche se non proprio «legali» – oltre il ruolo di vittime e dal disegnare l’amore pelle con pelle una mappa altra delle distanze tra gli esseri umani?