«Chiunque parli di edonismo californiano non è mai stato a Sacramento». La frase è della grande scrittrice Joan Didion, nativa della capitale della California da dove scappò per studiare a Berkeley e poi nella redazione newyorkese di «Vogue», con il decollo della sua carriera letteraria.
Il viaggio da West a East, l’affetto/odio per questo angolo ordinario del Golden State, un’opaca zona di mezzo tra il lure intellettuale rivoluzionario di San Francisco e quello materialistico glamour di Hollywood, e tra la vista mare e i picchi della Sierra Nevada, come descritto da Didion nel suo libro Where I Was From, anima anche l’esordio alla regia di Greta Gerwig, Lady Bird. «Tu ami molto Sacramento» dice all’incredula protagonista del film (che non vede l’ora di andarsene) la madre superiora del liceo cattolico – «sei molto brava ad osservarla. E dopo tutto, osservare non è anche amare»?

Nativa come Didion di Sacramento (di cui ci aveva regalato uno squarcio in Frances Ha), e come lei emigrata a New York, con Lady Bird Gerwig, in realtà, non ha fatto tanto un film su un luogo quanto sul suo alter ego – che si chiama Christine, si è auto ribattezzata come la moglie del presidente Johnson ed è interpretata dall’attrice Saoirse Ronan. E la forma obliquamente autobiografica di questo primo lavoro, di cui firma anche la sceneggiatura – tra il romanzo di formazione e la commedia esistenziale – ricorda non poco quella adottata dal suo compagno e collaboratore Noah Baumbach in uno dei suoi film più riusciti, The Squid and the Whale.

Christine ha un ego più prepotente dei due ragazzi Berkman (dietro a cui stavano Baumbach e suo fratello Nico), vittime di genitori divorziati nevrotici e iper-egocentrici.
Il mondo di Lady Bird – nata, ci ricorda spesso, dalla parte sbagliata dei binari della ferrovia, e cioè in un quartiere piccolo borghese da cui i suoi non sono mai riusciti ad andarsene – sembra infatti ruotare solo intorno a se stessa. Fissata com’è di andare all’università «a Est, dove c’è cultura», la ragazza sbuffa con sufficienza agli ammonimenti di una madre infermiera che la ama (Laurie Matcalf) ma che la tratta duramente, vivendo nella preoccupazione di un ménage famigliare ridotto all’osso, specialmente quando il papà dolce e saggio (il drammaturgo Tracy Letts) rimane senza lavoro.

Il film comincia con loro due in macchina che – lacrime che scorrono sul volto – ascoltano le battute finali dell’audiobook di Furore, il capolavoro sulla depressione di Steinbeck, in cui il sogno californiano si traduce in una Hooverville di Tulare, a pochi chilometri di distanza da dove i nostri personaggi stanno guidando.
Il palleggio colto, tra letteratura, cinema e commedia brillante è un classico della coppia Gerwig/Baumbach, ma che qui – dopo aver aperto con Didion e Steinbeck – poco a poco si spegne in un racconto più convenzionale di high school life appiattito purtroppo da un uso della musica aggressivamente prevedibile e da un montaggio piatto. Amica della ragazza più grassa ma anche più intelligente della classe, Lady Bird – che ha strisce di viola tra i capelli e la pelle tormentata dall’acne giovanile – è un’outsider più o meno benvoluta dai professori, che prima si innamora di un ragazzo buono, ricco e gay (Lucas Hedges) e poi perde la verginità con quello ombroso, che legge Howard Zinn (Timothee Chalamet, il protagonista di Call Me by Your Name).

Nella sua ingenua e goffa scalata al successo, Lady Bird guarda dall’alto in basso il fratello chicano e la sorella adottiva che lavorano nel supermarket.
Da queste insicurezze di classe – dall’ansia nervosa della madre, dai silenzi saggi di papà escono alcuni momenti più veri di Lady Bird. Che è meno in sintonia con l’elegia giovanile malinconica e misteriosa di un Palo Alto (il film di Gia Coppola ambientato nella stessa parte della California) che con il modello della commedia indipendente autocentrica e molto scritta codificata dal Sundance