Hayez, Molteni, d’Azeglio, Canella, Giuseppe e Luigi Bisi, Podesti, Inganni, Domenico e Girolamo Induno e scultori come Bartolini, Fraccaroli, Puttinati, Strazza, Vela, non si elencano più da molto come fossero pregiudicati. Colpevoli di essere ombre di ombre di qualche grande artista moderno, o solo portatori di patria retorica su stampe ingiallite nei corridoi della bisnonna. La redenzione dell’Ottocento è cominciata, al di là dei percorsi riabilitativi degli «ottocentisti autoctoni» di Enrico Somarè, negli anni settanta del secolo scorso, quando non pesava più, o non troppo, il giudizio negativo di Longhi – il grande storico dell’arte era scomparso nel ’70 – e si trovavano nuovi nessi sondando un segmento storico-artistico pressoché vergine. Così, sull’onda lunga delle grandi esposizioni sulla cultura accademica tra Londra, Parigi, Detroit e New York – The Age of Neo-Classicism, De David à Delacroix, Venezia nell’età di Canova… – si riscopriva la grande pittura storica, più tardi la scultura, riconnettendo le testimonianze artistiche alla critica coeva, al melodramma, all’istituzione dei musei, alla nascita della tutela territoriale e del restauro moderno. Da apripista gli studi di Rosenblum, di Honour, da noi quelli di Sandra Pinto, poi quelli, aggiornati e integrati fino a oggi, di Ferdinando Mazzocca.
Romanticismo, a cura proprio di Mazzocca, fino al 17 marzo tra Gallerie d’Italia e Museo Poldi Pezzoli, fa il punto su più di quattro decenni di ricerche sull’argomento mettendo in scena diorami riepilogativi chiarissimi, con accostamenti di opere – alcuni indimenticabili –, sui temi chiave del Romanticismo italiano restituito in una dimensione europea. A partire dallo sguardo rinnovato che si dedica in quel frangente al paesaggio: una rappresentazione della natura nella quale convivono, senza essere antitetici, una concezione scientifica e topografica e un senso profondamente emotivo. Tra gli altri, Corot è esposto vicino a Canella, Gozzi e Basiletti, come a mostrare due vie possibili: il pittore parigino fa un lavoro di sintesi pittorica e sentimentale, costruendo lo spazio con la luce calda dell’Italia, mentre per il veronese Canella non c’è nulla di pacificato e il soggetto del dipinto non è una campagna crepitante sotto il vento della nostalgia, ma un’atmosfera percossa da un’aria temporalesca su un territorio remoto, quasi senza confini, dove aleggia un’aria ancestrale.
La città di Milano è il laboratorio privilegiato per lo sviluppo di gran parte di queste nuove istanze. È un centro moderno, europeo, cuore dell’Italia culturalmente unitaria e luogo dei soggiorni di Stendhal, delle improvvise fortune di Rossini e Tommaso Grossi, della crescita di Manzoni e Porta. Il tessuto urbanistico risanato ospita una società profondamente rinnovata, tra ansie di progresso, passioni esterofile, una crescita culturale trasversale alle classi sociali e un coinvolgimento politico e civile che si allarga oltre la cerchia dell’impegnata aristocrazia progressista. Nei numerosi teatri, stando a Cattaneo, «le famiglie inselvatichite da sette generazioni, impararono a conoscersi e gustarono le dolcezze del viver civile»; la stampa di libri d’ogni genere, spesso illustratissimi, è incessante, e le botteghe sono divenute l’«Olimpo dei ghiottoni» con Veneri e Apolli di zucchero nelle vetrine. Le mostre di Brera, la foga collezionistica, gli studi degli artisti e le provocazioni del «Conciliatore», il foglio degli intellettuali sostenitori del fronte romantica, cambiano per sempre i generi della pittura accademica. In questo senso, la «pittura urbana» introdotta da Migliara e proseguita da Canella, Bisi, Inganni, interpreta non solo le architetture, ma la brulicante vita moderna all’ombra del Duomo. Più a sud, invece, le romantiche evocazioni degli artisti della Scuola di Posilippo vanno in una direzione diversa. Questi pittori, influenzati dagli stranieri come il tedesco Wilhelm Hubert o l’olandese Antoon Sminck van Pitloo, ma anche dai passaggi napoletani di Turner e Corot, cercano la nostalgica bellezza di un mondo perduto, lontano dall’urbanizzazione incalzante. La lezione di Pitloo, professore al Real Istituto di Belle Arti a Napoli, è decisiva per un’intera generazione di artisti: l’attenzione cade su una natura che cambia al mutare della luce del giorno o, nel caso di Fergola, sulla straordinarietà degli eventi come i maremoti in cui giocare, sulle onde del mare in tempesta, la carta della terribilità e dell’ineluttabilità del destino.
Nei ritratti – un altro genere minore nella gerarchia accademica che conosce un riscatto nell’età romantica –, sono rappresentate intere famiglie di marchesi, conti e baroni; poi dame, mondanissime in un’esibizione di lusso e di bambini. Tanti bambini che giocano, abbracciano, mostrati dalle madri o soli, in salotti, giardini, camere. Tutti dimostrano uno status e una ricchezza dei quali inorgoglirsi, e legami, ovviamente di sangue, specialmente d’affetto. Spiccano alcuni capolavori di Hayez. La figura dell’artista veneziano conta giustamente moltissimo in questa ricostruzione: a Milano dal ’22, conquista in poco tempo un primato vincendo il confronto con Palagi, Diotti, Molteni, aggiornando profondamente i generi su cui lavora. La sua materia, perfettamente levigata in una pittura accademica, è densamente psicologica e rivive in alcuni accostamenti: la Bolognina di Vela, 1851 (un’Eugenia Bolognini ancora bambina, prima di entrare nelle cronache contemporanee e tra le amicizie di Balzac), sta a pochi passi dall’intenso Ritratto di Antonietta Tarsis Basilico, un dipinto di Hayez riemerso in quest’occasione, e dalla contessina Luigia Negroni Prati Morosini, 1867, una «Lolita vittoriana» enigmatica e smaliziata.
Queste donne piene di ambiguità affollano la pittura romantica. Calate in un’ambientazione orientalista congeniale, almeno per Hayez, a un’indole da libertino, diventano odalische, schiave, Betsabee scollate e sensuali, dove la passione per il corpo femminile richiama al Seicento di Reni e Cagnacci. Ma il nudo ha diversi interpreti anche in scultura e, tra le Eve castamente sigillate nel marmo di Fraccaroli e Bartolini, s’impone l’Orgia di Torquato Della Torre, una scultura che pizzica le corde del peccato indagando nel torbido fascino del male, in anticipo sul Simbolismo. Mentre la nostalgia per la patria «bella e perduta» è nell’intensa Meditazione del 1851, in cui Hayez dipinge una giovane afflitta da uno smarrimento esistenziale che sembra insanabile nel ricordo delle eroiche ma luttuose Cinque giornate. È la rappresentazione simbolica di uno dei momenti più drammatici del nostro Risorgimento. È il manifesto della mostra.
Ci si allontana dalle Gallerie d’Italia spinti dalla forza sguaiata del Masaniello di Puttinati e dalla rabbia del colossale Spartaco di Vela. Pochi passi più in là, nelle sale del Poldi Pezzoli, si può riflettere sulla figura dell’artista romantico, tra ritratti e autoritratti che esprimono un’orgogliosa dichiarazione d’impegno, anche politico, per l’affermazione di un’arte nuova, ma anche altri dove il piglio estroso non esclude affettuose corrispondenze famigliari in interni Biedermeier. La presenza nel museo del Gabinetto Dantesco di Giuseppe Bertini permette anche un affondo su Dante: riscoperto e celebrato come padre della lingua, è l’eroe risorgimentale di Mazzini e non solo. Lo è insieme a Petrarca, Leonardo, Tasso, Raffaello, e con alcuni contemporanei come Costantino Beltrami, «genio italiano» che risale le acque del Mississippi per scoprirne la fonte. Per motivi diversi sono tutti miti celebrati dal Romanticismo, visti come artefici che nell’individualità del loro percorso hanno cercato di allargare lo sguardo al cosmo, come l’artista romantico che contemplando la luna o il mare o perdendosi nelle complicate fratte dei sentimenti suggerisce qualcosa sulla natura umana, circoscrivendo nel corpo dell’opera d’arte l’infinitezza dell’essere in tempi di rivoluzioni di popolo tanto diverse dalle attuali