Traviata alla Scala. L’opera più pop della plurisecolare tradizione lirica italiana e il teatro che di quella tradizione è diventato l’emblema, incarnazione della storia e allo stesso tempo simbolo sociale, scrigno della memoria ma anche spazio fuori dal tempo, dove si celebrano sfarzi che il mondo esterno riesce a concepire solo guardandoli attraverso il filtro benevolo dell’origine mitica. Una coppia chiacchierata e tumultuosa fin dal debutto scaligero dell’opera, il 29 dicembre 1859, a sei anni dalla disastrosa prima assoluta veneziana e a tre anni dai debutti milanesi alla Cannobbiana e al Carcano, quando la «puttana» di Verdi (definizione sua) imperversava già in tutta Europa con successo: fu un fiasco, riscattato nei decenni successivi da Adelina Patti, Franco Faccio e Arturo Toscanini e trasformato in gloria negli anni ’50 del Novecento con gli allestimenti De Sabata/Strehler/Tebaldi e Giulini/Visconti/Callas; seguirono negli anni ’60 il contestato allestimento Karajan/Zeffirelli/Freni e negli anni ’90 il glamouroso Muti/Cavani/Fabbricini.

Ma in 154 anni di presenza, mai a Traviata era stato concesso l’onore di aprire la stagione della Scala a Sant’Ambrogio, accresciuto al presente dall’onore di chiudere le celebrazioni del bicentenario del suo autore, ma venato di cupezza dall’onere di essere la nona e ultima inaugurazione del sovrintendente Stephane Lissner, che per contratto avrebbe dovuto lasciare la Scala nel 2017 e invece se ne andrà a luglio 2014 («Ma quella della Scala, dice Lissner, è stata per me la più bella avventura, a cui ho dato tutto me stesso. Non sempre sono stato contento dei risultati, ma di questa Traviata sono entusiasta, con un direttore d’orchestra geniale, un regista immenso e grandi interpreti»). Come sappiamo prenderà il suo posto l’austriaco Alexander Pereira, mentre Riccardo Chailly succederà nella direzione musicale a Daniel Barenboim. Il direttore di questa Traviata, Daniele Gatti (a suo tempo in lizza con Chailly per la direzione musicale), mette a partito la sua lunga frequentazione verdiana e la conoscenza approfondita di ogni piega del romanticismo musicale europeo (da Tchaikovsky a Mahler).

La regia, le scene e i costumi dell’opera, che lo scorso marzo ha compiuto 160 anni, sono stati affidati all’enfant prodige più apprezzato, richiesto e premiato del momento, il russo Dmitri Tcherniakov. Le scene sono senza tempo e gli abiti, più che costumi, sono vintage: nella cucina della casa di campagna del primo quadro del secondo atto, finto antica come piace ai nuovi ricchi di sempre, Alfredo impasta la pizza e affetta la verdura, Violetta è spettinata e in ciabatte, a raccontare una passione ormai diventata ordinaria; la festa del secondo quadro del secondo atto, con maschere di zingarelle e toreri secondo Verdi e il librettista Piave, diviene nella lettura di Tcherniakov quintessenza di volgarità, non lontano dalle serate viste in La grande bellezza di Sorrentino.

Cantanti supremi nei loro ruoli: la bionda e sinuosa tedesca Diana Damrau, che ha cantato alla Scala in occasione della sua riapertura nel 2004 con Muti e solo quest’anno ha già vestito due volte i panni di Violetta; il bel tenore polacco Piotr Beczala, già visto alla Scala e già diretto da Gatti; il baritono serbo Zeljko Lucic; la vecchia gloria Mara Zampieri nei panni di Annina. Dopo lo spettacolo, come sempre, una sontuosa cena di gala offerta dagli sponsor nei saloni dorati della Società del Giardino, addobbati con decori floreali in viola (Violetta) e bianco (La Signora delle Camelie), con menu d’ispirazione verdiana.