Romano Romani, ad apertura del sesto volume di Theoretikà, riflette: «il lògos si dà non soltanto nella propria presenza, ma anche nella sua privazione». Così che, argomenta, «insieme al commensurabile troviamo l’incommensurabile; insieme alla rigorosa consequenzialità del ragionamento, la contraddizione; insieme alla proporzione, all’armonia, alla bellezza, la sproporzione, la disarmonia, il brutto».

Romani licenzia ora, presso l’editore Cadmo, un libro di poesia dal titolo Confini. Libro di poesia. «In che senso?», si chiederà il lettore di questa nota.

Confini si compone di trentacinque testi che, salvo due di andamento prosastico, si presentano scanditi in versi. Accoglie due citazioni, dalla Critica del Giudizio di Kant e dal Timeo di Platone.

In esergo il frammento 45 di Eraclito, donde si cava il significato peculiare del titolo e la cogenza teoretica che fa la tonalità poetica della parola di Romani: «Per quanto tu cammini, ed anche percorrendo ogni strada, non potrai mai raggiungere i confini dell’anima: tanto profonda è la sua vera essenza».

Irraggiungibili confini di una percorribile latitudine. Lo dovremmo dire Confini, allora, un libro che annovera alcune poesie e due meditazioni filosofiche sulla poesia? Una tale presentazione equivarrebbe ad un misconoscimento pieno dei presupposti filosofici, e dei fondati propositi che muovono l’opera intrapresa e qui condotta dall’autore.

Che è il filosofo che così canta (chiosa, interpreta, tematizza, studia, evoca) Zenone di Elea: «Essere ed esistere,/uguale e contrario,/contrario e opposto,/simile e dissimile,/finito e infinito,/monade e numero/indivisibile e divisibile,/punto e linea,/unità e molteplicità,/luce e buio,/sono limiti invalicabili/e la valicabilità di ogni limite».

Non c’è variazione in Romani tra parola filosofica e parola poetica. La parola resta, risiede ragionata nella sua intensità composita e poliedrica. Quanto varia e, credo di poter affermare, della parola si screzia sta nella angolatura prospettica alla quale, volta a volta, la parola si apre. Dico in quel suo manifestarsi parte viva di un vivo tutto, e il suo tutto mostrare secondo la sua particolarità, ma diversamente declinata, resa molteplice nell’unità.

Se lo studio filosofico di Romani ha messo capo a un costrutto, questo è ordinato nella regola d’un elaborato transito, un edificio eretto non come resecato spazio, dunque come recinto, ma come mondo, dunque come corrisposta consapevolezza, lògos.

Trascrivo integralmente il primo testo di Confini: «La vita e la poesia hanno questo in comune, che sono ambedue il manifestarsi di un tutto nella parte: del vivere – dell’essere – nell’ente vivente, del vero nell’opera poetica. Per opera poetica non intendo esclusivamente ciò che suole chiamarsi una poesia o un poema. Ogni umana opera che reca in sé il segno della bellezza è opera poetica. È la parola che rende possibile la bellezza ed è la verità che rende possibile la parola. L’amore, inoltre, rende la poesia vita e la vita poesia».

Sir Philip Sidney nella suo Defence of poesie scritto nel 1580, sostiene che per i Greci la conoscenza della poesia è architettonica perché «consiste, nella conoscenza di sé e nella riflessione etica e politica, con lo scopo non solo di ben conoscere, ma anche di ben agire. Se dunque il fine ultimo di ogni umano sapere è l’azione virtuosa, tutte le arti che maggiormente servono a promuoverla saranno le più degne del titolo di virtù maestre, superiori ad ogni altra».

Quale riflessione in margine ad alcuni passi del Timeo platonico, citati nel penultimo testo di Confini, Romani ne raccomanda una lettura che assuma quale assetto ermeneutico dominante non quello della narrazione d’una cosmogonia, ma quello «di un discorso verosimile sulla costituzione dell’ordine del tutto».

La «composizione (systasis) del mondo», come dice Platone, a far aggio, se non a elidere la sua genesi. Ne tira, Romani, la seguente, preziosa, constatazione: «Questo discorso, che è il primo abbozzo nel pensiero occidentale di quella che Kant chiamerà scienza trascendentale, si struttura come una teoria dell’opera d’arte sulla quale ben poco si è ancora riflettuto in una prospettiva rigorosamente estetica».