Romano Prodi, ex presidente del consiglio italiano, ex presidente della Commissione dell’Unione europea, già inviato speciale del segretario Onu per il Sahel, mette in guardia contro un’altra operazione militare occidentale. Suggerisce invece un’iniziativa internazionale per il dialogo inter-libico, con il concorso indispensabile di Algeria ed Egitto.

Che cosa può fare l’Italia, che cosa può fare lei per contribuire all’apertura di negoziati fra gruppi libici per fermare il processo di disintegrazione del Paese?

Dalla fine della guerra, non ho smesso di sostenere il principio dell’apertura di un dialogo fra quanti in Libia hanno ancora a cuore il futuro del paese. Bisogna riunire attorno a un tavolo le diverse componenti, quelle a base regionale e quelle a base tribale, il governo, i gruppi armati… Si è perso troppo tempo e i rapporti di forza in Libia sono diventati straordinariamente complicati. Il governo rifugiato a Tobruk, alla frontiera con l’Egitto, gruppi armati che si spartiscono il controllo di Tripoli, una generalizzata insicurezza, esportazioni di petrolio minacciate o stornate, traffici di armi…Non possiamo rimanere indifferenti a quel che accade in questo paese mediterraneo. Se non si fa nulla, la Libia continuerà a essere la principale fonte di destabilizzazione della regione. La pluralità di attori aumenta i rischi che si creino roccaforti o califfati, cioè luoghi alla mercé di gruppi armati privi di qualunque legittimazione.

Lei è stato fra i pochi dirigenti europei a prevedere che la guerra avrebbe provocato un enorme caos e ad averla fortemente sconsigliata alla coalizione occidentale…

Sì, mi sono immediatamente opposto alla guerra, perché conoscevo il paese e i rapporti di forze locali. Conoscevo Gheddafi. Sappiamo che dirigeva il paese con mano dura, ma sappiamo anche che, da anni, cercava di far reintegrare la Libia nella comunità internazionale, accettando, per esempio, la richiesta di indennizzare le vittime di attentati, ecc. Stava anche giocando un ruolo di primo piano nel rafforzamento delle organizzazioni regionali e continentali africane, e le finanziava generosamente. Su questa base avevo preso l’iniziativa di invitare a Bruxelles Gheddafi, e fu il suo primo viaggio in Europa. Ero convinto che questo avrebbe portato a progressi nella stessa gestione del paese nordafricano. Al tempo stesso, ricordo che da presidente del consiglio contrariamente al mio successore (Berlusconi) non firmai il patto di amicizia con Gheddafi, per diverse ragioni che al momento della messa in opera si sono rivelate giuste. Resta il fatto che l’apertura dell’Unione europea a Tripoli fu conveniente anche agli anglo-statunitensi che non tardarono a interagire e a fare affari con questo ricco paese petrolifero.

Lanciare una guerra contro la Libia – oltretutto sapendo che era ben armata – per portarvi «la democrazia» è stato un errore madornale. Ero perfino troppo ottimista nelle mie previsioni, quando evocavo i rischi di balcanizzazione del paese; in realtà abbiamo assistito a una vera e propria frammentazione. Formulavo l’ipotesi di una tripartizione del paese, ma è in atto una triturazione…

La guerra ha anche provocato l’instabilità di tutta la regione.

Sì. I suoi fautori si sono rivelati degli incoscienti, per non dire degli avventurieri. L’esercito di Gheddafi era formato soprattutto da membri delle tribù del deserto ed era anche costituito in buona parte, come la quasi totalità della manodopera del paese, da stranieri emigrati in Libia dai paesi vicini. Gheddafi si interessava personalmente al loro benessere, assicurava buoni salari, si occupava delle famiglie… La guerra ha rovinato tutto. Già al tempo degli antichi romani, i mercenari abbandonati al loro destino finivano per violare tutte le leggi. I combattenti sono fuggiti dalla Libia, ormai privi di risorse, portando con sé l’unica cosa che avevano a disposizione: le armi. Quando sono stato in Mali nel 2013, c’era un’asta giornaliera di armi provenienti dalla Libia. Nella regione circolavano milioni di kalashnikov, ma anche armamento pesante. Questo ha alimentato il terrorismo regionale.

Il ministro francese della difesa sostiene adesso che, per ripristinare la stabilità nella regione, occorra intervenire militarmente nel sud della Libia – precisando al tempo stesso che la Francia è già molto occupata su altri fronti. Che ne pensa?

Un’altra guerra? Con chi? Contro chi? In questi ultimi due decenni abbiamo visto così tante guerre, e non hanno risolto niente! In Iraq credevamo di sapere chi fossero i buoni e i cattivi; invece si è poi visto che era molto più complicato di così. Di fronte all’eventualità di un’altra guerra in Libia, si può ricordare l’assioma «sbagliare è umano, perseverare è diabolico»!

Ma crede che oggi in Libia sia possibile un dialogo inclusivo?

Bisogna tentare, preparare il terreno. Sono stato contattato a titolo personale da interlocutori libici, anche importanti, che auspicano un aiuto dall’esterno in questa direzione. Comunque non faccio diplomazia parallela. Il governo italiano e l’Europa dovranno assumersi le proprie responsabilità, garantire un coordinamento. Ma per me è chiaro che senza coinvolgere Algeria ed Egitto, le due potenze (laiche) della regione, non si andrà lontano. Un loro forte impegno è una condizione imprescindibile. Oso sperare che questo contesto sia avviato al più presto. Si è perso anche troppo tempo.

* copyright afrique asie/il manifesto
traduzione Marinella Correggia