Domenica scorsa si sono svolte in Romania, nel rispetto delle misure anti-Covid, le elezioni parlamentari più scialbe che la storia post-comunista di questo paese ricordi. Un solo dato basta a sintetizzare la scarsa importanza che hanno riscontrato nel paese: quello dell’affluenza. Degli oltre 18 milioni degli aventi diritto, infatti, circa sei milioni si sono presentati alle urne per una percentuale, la più bassa di tutti i paesi dell’Unione Europea e agli ultimi posti nel mondo, del 33% (i dati non sono ancora definitivi per via del conteggio delle schede dei rumeni della diaspora). 

Un solo vincitore, dunque, l’astensionismo che ha portato con sé, come spesso accade, sorprese più o meno grandi. Il partito socialdemocratico è tornato a essere di nuovo il primo partito con il 29.7% delle preferenze, non era un fatto scontato alla vigilia, tutt’altro. Mentre i liberali si sono trovati staccati di ben 4 punti (25.5%), un risultato deludente per il premier Ludovic Orban che ieri sera si è dimesso. 

I socialisti, che negli ultimi anni hanno fatto il bello e cattivo tempo al governo e che nel maggio 2019 si sono ritrovati senza il proprio leader, Liviu Dragnea, arrestato per corruzione (è ancora dentro a scontare una pena di 3 anni e mezzo), erano stati sfiduciati nel novembre 2019 con la premier Viorica Dancila costretta a lasciare il posto al liberale Orban, avevano perso le europee e a settembre anche la capitale Bucarest, sembravano essere giunti al capolinea.

Invece, miracolo dell’astensionismo, sono più vivi che mai. Purtroppo per loro, però, sarà quasi impossibile rientrare a far parte del governo.

Il Psd è stato, infatti, l’unico partito di centrosinistra ad aver superato la soglia di sbarramento elettorale del 5% e gli altri quattro partiti che lo hanno fatto appartengono al centrodestra. Fra questi, bisogna cominciare dalla sorpresa, la più grande, di questa tornata elettorale. Il risultato ottenuto dalla neoformazione della destra populista Aur (Alleanza per l’Unione dei rumeni), nata solo nel dicembre 2019, che si definisce conservatrice, patriota e unionista (richiede l’unione della Bessarabia, l’attuale Repubblica di Moldavia, alla Romania) e che ha ottenuto oltre l’8% delle preferenze, secondo partito più votato dai rumeni della diaspora dopo l’Allenaza USR-Plus. Quest’ultima ha confermato la sua posizione di spalla ai liberali perdendo, però, ancora una volta l’occasione di effettuare il sorpasso e attestandosi attorno al 15%.

Infine, l’Udmr, il partito dei magiari che tornerà ad essere decisivo per la formazione del governo col suo 7.5%. Tutti gli altri partiti sono fuori dal Parlamento e adesso può cominciare il valzer delle alleanze, guidato dal presidente Iohannis che già ieri ha iniziato le consultazioni con i partiti politici per designare il nuovo premier.

«Se facciamo un raffronto con le elezioni del 2016 – ha detto nella sua prima dichiarazione alla stampa ieri pomeriggio il presidente Klaus Iohannis – vediamo che il Partito Nazionale Liberale (il suo partito, ndr) ha guadagnato 5 punti percentuali, l’alleanza Usr-Plus ha raddoppiato i suoi voti, mentre il Psd è sceso dal 45% al 29%. È chiaro che non c’è più spazio nel governo per i socialdemocratici, considerato che i partiti di centrodestra hanno preso oltre il 50% dei consensi. Nei prossimi giorni darò il via alle consultazioni per il quale prenderà le necessarie misure per la pandemia, procederà alle riforme tanto aspettate e spesso rimandate, gestirà la campagna per i vaccini e presenterà la nuova legge sul bilancio». Fermo restando che l’asse portante del centro-destra è formata dai liberali e dall’alleanza moderata USR-Plus, resta da capire come potranno andare d’accordo due partiti come Aur e Udmr che hanno sì alla base lo stesso concetto di difesa delle identità nazionali, ma di due identità diverse: quella rumena e quella magiara. Ed è un appoggio del quale il nuovo governo non potrà fare a meno.

L’ultimo pensiero va alla disillusione del popolo rumeno che a fronte di una campagna elettorale totalmente povera di contenuti, nella quale più che i problemi di un paese ancora alla ricerca di soluzioni contro la corruzione, alle prese con un sistema sanitario fatiscente e con infrastrutture non certo all’altezza di un paese dell’Unione europea (i dati aggiornati al 19 settembre 2020 parlano di una rete di soli 873 chilometri costruiti, praticamente nulla per il paese più grande dell’area balcanica, il secondo più vasto per estensione dell’ex blocco comunista dopo la Polonia. Inoltre, la linea ferrovia ha perso 600 chilometri negli ultimi 30 anni!), ha tenuto banco il Covid, ha risposto praticamente boicottando il voto.