All’inizio è il corpo, anzi i rumori del corpo, a cominciare da quei battiti meccanici del cuore che apparentano gli umani ai robot. O, meglio, a maschere del teatro No che scivolano fra gli ostacoli, opponendo resistenze inconsuete o lasciandosi andare tra i flutti. Movimenti spezzati, da bambola che si accartoccia introducono in scena la danzatrice giapponese Kaori Ito, che «viene alla vita» in un nero alchemico e uterino in questo spettacolo all’incrocio tra oriente e occidente.

Plexus, che chiude Romaeuropa festival al teatro Brancaccio di Roma (repliche fino a domenica), è un atto poetico del regista e drammaturgo Aurelien Bory, un tributo alla fisicità panteista dell’ukiyo-e, a quel concetto del «vivere fluttuante», assaporando gli stati della natura, le stagioni del mondo (le roboanti tempeste, cui opporre solo la forza dell’istinto) e quelle che appartengono al corpo.

Kaori Ito, immersa in una selva di fili che molto somigliano a una gabbia (ma anche a un gioco visivo e illusionistico della Optical art in cui si smonta e rimonta la tridimensionalità dello spazio), è una macchina scenica barocca. È un’immagine olografica, un manga in black che scende dal cielo e un oscuro demone che si muove furtivo sia nella giungla che nella presunta foresta urbana. Un puro artificio visivo.

Quella di Ito è una biografia costellata di traslochi e presenze: dal Giappone agli Stati uniti fino in Europa, portandosi dietro collaborazioni mozzafiato: alle sue spalle, troviamo Angelin Preljocaj, Sidi Larbi Cherkaoui, Alain Platel. Qui, invita a una continua rinascita e ribellione attraverso l’acrobazia spericolata e la precisione millimetrica del proprio muoversi sulla faticosissima strada dell’esistenza.