Dovevano essere primarie «aperte», nel senso che tutti erano invitati ai seggi, anche i non elettori del partito democratico; sono state invece primarie assai ristrette. A Roma, dopo una mezza giornata di polemiche, soprattutto interne, sulla mancata ufficializzazione dei risultati – «a quasi 24 ore dallo spoglio siamo ancora a circa 50mila, ma circa è un numero che non esiste», ha detto a un certo punto Nico Stumpo, ex uomo macchina della minoranza bersaniana del Pd – alle sette di sera la federazione del commissario Matteo Orfini ha tirato le somme. I votanti sono stati 47.300, i voti validi ancora meno, 43.600, perché assai stranamente visto il tipo di votazione ci sono stati quasi 4mila voti non validi, soprattutto schede bianche.
Primarie dunque per nulla affollate, anche se dal partito nel corso della domenica veniva notizie di «file ai seggi». Che erano 193 e sono stati tutti aperti per dodici ore (dalle 8 alle 22), con una media dunque di venti elettori ogni ora. Non è stato un assalto. E non sembra aver funzionato la formula delle primarie aperte, visto che facendo un po’ di conti a Roma sono andati a votare appena otto elettori ogni cento di quelli che nel 2014 hanno scelto il Pd alle elezioni europee o nel 2013 alle politiche. Un po’ di più – undici ogni cento – facendo invece il confronto con quelli che nel 2013 hanno votato per i democratici, la lista Marino o gli alleati, nelle elezioni per il sindaco.

Il crollo più direttamente misurabile è proprio quello riferito alle primarie per il comune, che nel 2013 richiamarono 100mila elettori romani. «Allora c’erano le truppe cammellate dai capibastone poi arrestati, il pantano che portò a mafia Capitale, le file dei rom», ha liquidato la faccenda Orfini (provocando la risentita reazione dell’Associazione nazione rom). Ma assai più imbarazzante per il partito sarebbe il confronto con precedenti e più gloriose primarie, come quelle per il segretario del 2013 o del 2009 (entrambe interne al Pd, in entrambi i casi votarono 150mila romani). Domenica scorsa ci si è fermati sul livello di partecipazione delle «parlamentarie», organizzate in tutta fretta tra natale e capodanno nel 2012 per scegliere i candidati al parlamento.
Il risultato ufficiale vede Roberto Giachetti più che doppiare Roberto Morassut, quasi 28mila voti contro poco più di 12mila. Terze classificate le schede bianche, 2.866. Poi il generale Domenico Rossi, che con 1.320 voti ha superato in scioltezza le schede annullate. Terzultima Chiara Ferraro (915), penultimo Stefano Pedica (594), ultimo il verde Gianfranco Mascia, quello dell’orso (529).
Se prima di domenica Morassut aveva detto che sotto i 50mila elettori sarebbe stato «imbarazzante», Giachetti più prudente aveva previste «decine di migliaia» di voti. A risultato acquisito, la minoranza bersaniana è partita all’attacco. Anche perché questa è la settimana in cui cercherà il massimo di visibilità per l’assemblea di corrente organizzata a Perugia. «Non possiamo far finta di non vedere i numeri, c’è un disagio dei nostri elettori, c’è un rapporto logorato», ha detto Roberto Speranza, candidato candidato segretario nel congresso in cui bisognerà sfidare Renzi, quando ci sarà. I bersaniani mettono sotto accusa il doppio incarico di Renzi: «Non abbiamo un segretario a tempo pieno, non sta funzionando», prendendosi però delle rispostacce dalla maggioranza. «Parlano come i grillini», «vogliono solo danneggiare il partito», ripetono i renziani. Più interessante è la timida presa di distanza del ministro Graziano Delrio, renziano da tempo uscito dal «giglio magico». «Mi preoccupa la scarsa affluenza perché credo che la democrazia abbia bisogno di partecipazione», aveva detto il ministro delle infrastrutture domenica in tv. Ieri ha aggiunto che «a Roma si poteva fare meglio, veniamo da un periodo non facile e dobbiamo continuare a lavorare». Parole stonate rispetto al governativo coro di giubilo.