Lo scorso autunno, magnificando l’occasione offerta da cantieri privati avviati nel quartiere di Monteverde, gli archeo-speleologi di Roma Sotterranea hanno riconsegnato all’attualità le memorie perdute di imponenti cavità sotterranee annidate nel cuore dell’Urbe. Vuoti ingombranti sotto il caos calmo di una superficie sfruttata fino all’ultimo respiro, citati ampiamente dalle fonti antiche, la loro ultima notizia risaliva agli anni bui della Città Aperta, quando vennero utilizzati come rifugio antiaereo. In seguito, con il boom edilizio, sopraggiunse l’oblio.

La lunga rimozione ha avuto il suo epilogo a 23 metri di profondità, al termine di una discesa su corda attraverso un pozzo realizzato per gli speleologi su richiesta della Soprintendenza speciale per i beni archeologici: sotto i piedi di straordinarie catacombe ebraiche, sono state individuate cave estese per oltre 150mila metri quadrati. Poco dopo, a breve distanza e alla luce del sole, le piogge di inizio febbraio spalancavano sul manto stradale di via Pasquale Revoltella il varco dimensionale di una voragine, non ancora sanata.

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Mentre il ventre di Roma si riscopre molle, la testa torna a reclamare con maggiore forza la necessità di studi geologici che, interagendo efficacemente con l’archeologia, garantiscano un’adeguata tutela del patrimonio culturale, oltre alla sicurezza dei cittadini. Questi gli argomenti che abbiamo affrontato con Maurizio Lanzini, collaboratore di Roma Sotterranea e presidente della sezione Lazio della Società Italiana di Geologia Ambientale (Sigea).

«Se frane, alluvioni e terremoti, nonostante i frequenti allarmismi, non costituiscono un pericolo reale per i romani – chiarisce l’esperto – appaiono al contrario sottovalutati i rischi provocati dal crollo di cavità sotterranee, per lo più collegate a cave di tufo e pozzolana e alle antiche catacombe».

Una miniera di pozzolana

Tra il 2001 e il 2003, la Protezione Civile ha realizzato il primo censimento italiabo di questa particolare tipologia di dissesto, in seguito implementato dall’Ispra con il progetto Sinkhole, grazie al quale sono stati raccolti, per la sola Roma, oltre 1800 casi a partire dalla fine dell’800. Da allora, moltissimi i crolli e le voragini che hanno interessato strade, fognature e reti telefoniche, risparmiando per fortuna vite umane, con l’eccezione di una donna risucchiata mentre stendeva i panni nella Centocelle del primo dopoguerra.

«Con l’Università di Roma Tre, per conto dell’ex VI Municipio, abbiamo iniziato a lavorare alla cartografia tematica sul rischio di crollo – continua il geologo – localizzando su pianta tutti gli episodi di dissesto al fine di valutare il rapporto tra le cavità e la qualità delle strutture di superficie». È senza dubbio il territorio tra Prenestina e Casilina a ovest di Centocelle a presentare le maggiori criticità.

Gran parte della pozzolana e del tufo utilizzati per innalzare i palazzi in seguito all’Unità d’Italia e, nel Novecento, soprattutto tra le due guerre, è stata scavata proprio in quel quadrante, procedendo verso est di pari passo all’avanzare del fronte dei nuovi fabbricati. «Laggiù troviamo un vero e proprio labirinto. Se partissimo dalla Prenestina, all’altezza di Villa Gordiani, incontreremmo gallerie che arrivano a sud fino a Via Formia e Via Sezze, dove si apre un’altra rete caveale. A Via Labico, un ulteriore ramo è servito da fungaia fino a metà degli anni ’90». Crollò nel 2009: una famiglia di sei persone riuscì a salvarsi. Era andata peggio nel Parco della Caffarella, dove nell’estate del 1997 un crollo non aveva lasciato scampo a un operaio indiano quarantenne, morto a 25 di profondità per raccogliere funghi.

Quasi fossero scheletri nell’armadio, la capitale postmoderna ha perso il ricordo di ferite sotto pelle che, a volte, riaffiorano nei racconti degli anziani. «Sostengono alcuni – sorride Lanzini – che, scendendo sottoterra dalla Prenestina come in un romanzo di Jules Verne, uscivano a riveder le stelle a San Pietro. Si tratta ovviamente di leggende metropolitane. Tuttavia, anche se non è ancora provato, ritengo per esempio credibile che le cavità lungo la Prenestina siano collegate con le lontane catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, sulla Via Casilina».

L’archeologia, in relazione immediata con le catacombe, è chiamata in causa anche dalle cave di pozzolana, materiale pregiatissimo perché fondamentale per produrre i calcestruzzi, impermeabili e resistenti al sale marino, impiegati dai romani nella messa in opera delle fondazioni sommerse dei porti. Scoperta a Pozzuoli, presto la pulvis puteolana fu rintracciata nella stessa Roma, dove sulle tante cave finirono spesso per innestarsi solenni catacombe, come quelle di Priscilla, inaugurate sulla Salaria nel II secolo.

«Per costruire strutture murarie, i romani dovettero inoltre servirsi in notevole quantità del cosiddetto tufo lionato», sottolinea Lanzini. «Iniziarono a cavarlo senza troppi sforzi sotto il Campidoglio, trasformando le sue fondamenta in una groviera, prima di individuare affioramenti più vantaggiosi nella collina di Monteverde, dove banchi di tufo ancora emergono lungo via Parrasio e via di Ponziano. Da qui, le cave romane si estendono almeno fino all’area di Vigna Pia, lungo la Portuense, passando sotto al Forlanini».

In superficie, su queste basi, poggia uno dei quartieri più urbanizzati della città. Eppure, proprio sotto all’ospedale si distende un lago in piena regola, tanto che i vigili urbani non possono fare altro che perlustrarlo in barca durante i monitoraggi di routine.

Un altro tufo, rosso a scorie nere

Un tempo i quiriti chiamavano questi terreni Pozzo Pantaleo; oggi di tali memorie del sottosuolo resiste, senza conservarne coscienza, soltanto il toponimo di una stradina tra Portuense e Viale Marconi: via di Pozzo Pantaleo. Del resto, la maggior parte delle cave furono abbandonate dai romani quando, conquistata Veio nel 396 a.C., sembrò loro decisamente più comodo cavare un altro tufo, rosso a scorie nere, facilmente trasportabile con le chiatte fino al centro città.

Alcuni settori rimasero tuttavia attivi a lungo; tra questi, quello ricavato nelle cavità appena riscoperte da Roma Sotterranea, chiuso solo nel 1920. Fu proprio l’uso dell’esplosivo, qui impiegato già nell’Ottocento, a determinare il crollo delle sovrastanti catacombe ebraiche, frequentate dal III al V secolo e scavate dall’archeologo tedesco Nicholas Muller nel 1904.

«Il rischio di dissesto legato alla presenza di cavità sotterranee a Roma andrebbe affrontato accettando l’evidenza di una rete caveale estesa, e non limitandosi a tamponare singole voragini», sostiene il geologo. «Avremmo bisogno di un gruppo operativo che raccolga sistematicamente ogni dato a disposizione attraverso un Gis aggiornabile di volta in volta, in modo da risparmiare tempo e denaro secondo un metodo già seguito a Matera, dove esiste un catasto ipogeo comunale. Non esistono altre possibilità per affrontare un dissesto così infido, considerando che non abbiamo a disposizione nessun modello per prevedere i crolli: non sappiamo perché nel ’95 e nel ’96 si è verificata un’impennata nella frequenza delle voragini e nemmeno possiamo stabilire i rapporti di queste con il maltempo, visto che luglio è risultato il mese più nefasto».

La testa sotto la sabbia

Soprattutto, è l’attività umana a mettere a dura prova la tenuta geologica del territorio romano. Negli anni ’50-’70, in particolare, si è diffuso a macchia d’olio un tessuto continuo di strutture urbane, con edifici innalzati su fondazioni dirette al di sopra di sistemi ipogei non sconosciuti, spesso sovrapposti a reti idriche e fognarie fatiscenti.

Nessuno può più pensare di nascondere la testa sotto la sabbia, assicura il geologo. «I costruttori della linea C hanno lasciato la rete caveale al di sopra del livello di passaggio della metropolitana, prima di consolidarla secondo tecniche ben definite. Si tratta di metodologie sperimentate nel 1995, quando nel giardino della scuola elementare di Santa Beatrice alla Magliana, edificata su cave di pozzolana troppo vaste per essere colmate, si spalancò una voragine. Tra i diversi calcestruzzi sabbiosi studiati appositamente per il riempimento di cavità sotterranee, e quindi abbastanza porosi da lasciar filtrare l’acqua, il più idoneo fu individuato nel Geomix. I rami più critici furono chiusi con delle paratie interne, ponendo in opera dei micropali con armatura metallica, prima di pompare, all’interno di un volume noto, il calcestruzzo speciale».

I geologi del comune di Roma, tuttavia, si contano sulle dita di una mano. E insistono, come uno schiaffo, le parole di Plinio impresse nel XXXIII libro della sua Storia Naturale: «Tentiamo così di raggiungere tutte le fibre intime della terra e viviamo sopra cavità che vi abbiamo prodotto, meravigliandoci che talvolta essa si spalanchi o si metta a tremare come se, in verità, non potesse esprimersi così l’indignazione della nostra sacra genitrice».