Oggi il governo salverà Roma con decreto ad hoc. Renzi lo ha annunciato di persona ieri sera, e prima ancora lo aveva promesso al sindaco Marino dopo una mezza rissa telefonica. Però sarà più un’effimera boccata d’ossigeno che la salvezza vera e propria, e anche garantire quella sorsata d’aria rischia di rivelarsi un’impresa.

Prima di tutto perché non è del tutto certo che il capo dello Stato apponga la sua firma senza battere ciglio. Quando il forzista Maurizio Gasparri ricorda che «le norme non si possono reiterare, e questo il governo dovrebbe saperlo» non ha tutti i torti. Tanto più che il dl salva Roma è già stato reiterato una volta. Contrabbandare la terza versione per un decreto nuovo di zecca non sarà uno scherzo. Anche se Napolitano, come è probabile, fingerà di non accorgersi dello strappo pur di evitare la bancarotta capitolina, in Parlamento lo scontro sarà frontale. «La Lega non farà opposizione: farà la guerra», annuncia il segretario Salvini. Ci vuole poco a immaginare che il M5S non sarà da meno.

La via d’uscita individuata, peraltro a malincuore, dal premier sia per aggirare il divieto di reiterazione, sia per parare la prevedibile accusa di foraggiare Roma senza chiedere sacrifici in cambio, dovrebbe essere un decreto riveduto e corretto in maniera sostanziale. Il bilancio 2013 verrà in effetti coperto, salvando così gli stipendi dei circa 25mila dipendenti comunali ed evitando la bancarotta. Ma nei prossimi anni le misure di bilancio dovranno essere concordate tra l’amministrazione capitolina, il ministero dell’Economia e una figura tecnica «senza oneri per la finanza pubblica»: quasi un commissariamento di fatto, se non di nome. «Ci sarà una soluzione su Roma che non sarà la stessa del decreto decaduto» conferma Legnini: «Ci sarà un provvedimento per il 2014 e la riproposizione di un piano rigoroso per il riequilibrio finanziario di Roma Capitale». Per questa via, però, è prevedibile che tornino in ballo la privatizzazione di alcuni servizi e la cessione di nuove quote Acea, che era stata evitata al Senato solo dopo un lunghissimo braccio di ferro sull’emendamento Lanzillotta. Loredana De Petris, di Sel, non ha dubbi: «Dietro questa vicenda ci sono gli interessi di chi vuole privatizzare Acea».

Anche strappare questa vittoria più che mutilata è costato uno brusco scontro diretto tra il sindaco di Roma e l’ex primo cittadino di Firenze. Marino, fiutata l’ariaccia, cosciente che Renzi avrebbe preferito evitare qualsiasi nuovo decreto, aveva attaccato a testa bassa: «Da domenica io blocco la città. Fortunati i politici con le auto blu. Potranno continuare a girare. I romani invece no». Come se non bastasse aveva messo sul piatto della bilancia l’addio: «In marzo non ci saranno più i soldi per pagare i dipendenti, per il gasolio dei bus, per gli asili nido, per i rifiuti e neppure per le santificazioni dei due Papi. Se si dovessero licenziare 4mila dipendenti, vendere Acea, liberalizzare trasporti e rifiuti se ne occuperebbe un commissario liquidatore, non io».

La minaccia ha mandato Renzi su tutte le furie. «Sono toni inammissibili. Stiamo lavorando per risolvere un problema non creato da noi», fa filtrare il neoinquilino di palazzo Chigi. Poi affronta il fattaccio direttamente con Marino, in una telefonata che in gergo viene definita «energica»: non ci vuole molto a tradurre in rimproveri e cazziatoni. In serata, del resto, Renzi confermerà e ufficializzerà: «Le preoccupazioni di Marino sono comprensibili. I toni che ha usato no». Alla fine i due definiscono il pur fragile accordo e il depauperato sindaco di Roma ingrana la retromarcia: «Nessuna minaccia: non sono io ma il taglio delle risorse a bloccare Roma. Ho piena fiducia in Renzi e Delrio». Arriva persino a fingersi convinto che non ci fossero i tempi tecnici per porre la fiducia sul dl bloccato dall’ostruzionismo di Lega e M5S.

La protesta dei padani e dei pentastellati, peraltro, è stata solo un colpo di grazia, reso possibile dalla lunghissima permanenza del decreto al Senato, che lo stesso Marino ha denunciato in uno dei tanti sfoghi di ieri: «Ci sono voluti 42 giorni. Io mi ci prendevo una laurea». Quella marcia a passo di lumaca non era però dovuta alla neghittosità dei senatori, ma in parte all’estenuante tira e molla sull’emendamento Lanzillotta, e in parte anche all’ostilità per l’amministrazione Marino di un Pd che non vede l’ora di levarsi questo sindaco di torno. L’imperizia del governo dei giovani, che ha preferito affossare il dl pur di non fare la figuraccia di chi ricorre subito alla fiducia, ha fatto il resto.

Sempre che si sia trattato davvero di imperizia. L’emendamento sull’acqua pubblica che ha tenuto fermo il dl per settimane era firmato dalla senatrice Lanzillotta. Il marito della medesima, Franco Bassanini, è presidente della Cassa depositi e prestiti, senza i buoni uffici della quale per Renzi sarebbe impossibile centrare anche solo in parte gli obiettivi ambiziosi che ha enumerato in Parlamento. In particolare il saldo totale dei crediti vantati dalle imprese. Ma sono semplici coincidenze: Honni soit qui mal y pense.