Andando ben oltre l’ormai ritrita e banalizzante retorica di mafia capitale come quella di Roma criminale, Le mosche – il nuovo romanzo di Emiliano Ereddia (Il Saggiatore, pp. 640, euro 18) – indaga (finalmente) la città di Roma rivelandone un carattere inedito o quanto meno poco perlustrato negli ultimi anni.

Per certi versi per la prima volta si avverte in un romanzo contemporaneo che comunque si inserisce pienamente nel genere noir o poliziesco che dir si voglia, uno sguardo su Roma che contempli pienamente le contraddizioni di una capitale in lotta reale e potremmo dire non solo criminale, ma anche quotidiana e spiccia con il potere. Non solo dunque la messa in scena di una sterminata periferia senza luogo e definizione o peggio ancora di un caratteristico centro storico privo di ogni legame con il proprio tempo, ma quasi paralizzato plasticamente in un’interminabile sequenza anni ’50.

L’impressione invece qui è che proprio partendo da una narrazione, da uno sguardo cinematografico dentro al quale Roma assume a tratti le sembianze della Los Angeles di Michael Mann, l’autore elabori un discorso non solo narrativo ma pienamente letterario dando spazio ad una scrittura mai di servizio, ma fortemente strutturale (come sempre dovrebbe essere) al discorso.

ED È GRAZIE AD UNA LINGUA che tracima in continuazione, spesso anche avventurandosi virtuosamente in veri e propri esercizi di stile, che si sviluppa una trama densa e che Emiliano Ereddia caratterizza in modo brillante i suoi personaggi, a tratti volutamente fumettistici, ma mai piattamente bidimensionali. Quindi, se si sente la forza visionaria di una sceneggiatura ben costruita, non si sente in compenso alcuna fragilità narrativa, anzi il romanzo prosegue accompagnando a tutta velocità il lettore come in un fiume in piena.

Una lettura densa, godibile che fa piazza pulita degli ormai stanchi approcci che hanno dato forma negli ultimi anni ad una Roma all’americana ormai ridotta ad un prevedibile format, ma che facendo il percorso inverso dal cinema verso la letteratura sa recuperare gli stilemi preziosi del genere prendendo spunto dalla cinematografia contemporanea (non solo appunto Michael Mann, ma anche quella parte di cinema coreano che va da Chan-wook Park fino al recentemente celebrato Bong Joon-ho) dando forma ad una sintesi originale tetra e surreale, dove Il signore delle mosche sembra riproporsi riscritto da un redivivo Alberto Savinio.

Le mosche di Emiliano Ereddia oltre che rivelare una voce compiuta per la narrativa italiana offre finalmente una vista su Roma nella sua folle rincorsa verso un’età contemporanea che ha sempre nella capitale un tempo particolare tutto suo. Ritratto di Roma, ovvero di una macchina celibe in cui bellezza e giustizia assumono colori imprevedibili e spesso dal valore opposto, ma che è infinitamente più necessario raccontare. Uno specchio vivido e potente che nella sua frastagliata complessità mostra i contorni di un mondo che è tutto meno che romano, ma che di Roma vive nello spirito di una lotta inevitabile quanto infinita con l’essere presente.

L’ASSENZA DI ROMA è infatti di conseguenza l’altro vero elemento portante del thriller che si scioglie nell’emotività sconnessa di personaggi tanto radicali da offrire sempre uno spazio, una breccia per rivelarne i conflitti interiori. Scomparire, finire nel nulla è infatti forse un altro modo per restare a Roma, città fagocitatrice e ingorda che si rivela però sempre più fragile e colpita da estrema magrezza. A Roma, ci insegna indirettamente Le mosche, non è il passato o il futuro a fare male, ma un pericoloso e irriducibile esistente.