Di fronte al Senato il ministro degli Esteri italiano Gentiloni lo ha ribadito: nessun avventura militare in Libia senza una richiesta del governo legittimo e dopo un apposito voto del Parlamento. Parole che seguono a settimane di escalation bellica, che ha avuto il suo tragico apice nell’uccisione di due degli ostaggi italiani rapiti nel luglio 2015 vicino Sabratha.

Ieri il ministro ha ribadito che le salme di Piano e Failla sarebbero rientrate ieri in Italia, dopo l’autopsia condotta dalla procura generale di Tripoli senza il via libera da parte di Roma. Ieri le autorità italiane avevano confermato l’arrivo di un medico dell’esercito all’esame autoptico. Il procuratore libico, nel pomeriggio, ha fatto sapere che l’autopsia si è conclusa e che entro la serata l’aereo diretto a Roma sarebbe partito con le due salme a bordo.

Un’iniziativa che ha fatto infuriare le famiglie delle vittime che da giorni chiedono spiegazioni su quanto sia successo. Sul perché gli altri due ostaggi, Pollicardo e Calcagno, siano riusciti a liberarsi, sul perché i loro cari siano morti poche ore prima.

Di notizie certe ancora non ce ne sono: Gentiloni dice solo che nessun riscatto è stato pagato e che i rapitori non sono ricollegabili allo Stato Islamico, aggiungendo che «l’ipotesi più accreditata è quella di un gruppo criminale filo-islamico operante tra Mellita, Zuwara e Sabratha». Poi assicura: «Il governo non si farà trascinare in avventure inutili e perfino pericolose per la nostra sicurezza nazionale. Non è sensibile al rullar di tamburi e a radiose giornate interventiste ma interverrà se e quando possibile su richiesta di un governo legittimo».

Quale governo? Di esecutivi di unità, nonostante accordi e promesse, non è ancora nato nessuno. E se anche i parlamenti rivali di Tripoli e Tobruk dovessero trovare un punto di convergenza definitivo, si dimentica l’attuale realtà della Libia, frammentata in autorità rivali, poteri più o meno palesi, che corrono dalle tribù alle milizie islamiste. Da loro, di certo, non arriverà alcun via libera ad un intervento internazionale.

Eppure i progetti di divisione del paese sono già in corso: una guerra occulta si sta già combattendo, con truppe internazionali dispiegate sul campo di battaglia (e nel caso francese, attive) e piani di spartizione dal sapore coloniale. La Tripolitania all’Italia, la Cirenaica alla Gran Bretagna, il Fezzan alla Francia. Sullo sfondo una coalizione di 19 paesi pronta a lanciare l’intervento. Il piano – rivela il New York Times – sarebbe già sul tavolo del presidente Obama dal 22 febbraio, impacchettato dal Pentagono ufficialmente in chiave anti-Isis.

Mentre Gentiloni contava i miliziani islamisti («Secondo le nostre analisi, ci sono circa 5mila combattenti di Daesh in Libia»), i consulenti per la sicurezza nazionale di Washington discutevano di campagne militari. Secondo il quotidiano statunitense, l’ipotesi è quella di bombardamenti contro campi di addestramento, depositi di munizioni, obiettivi militari e centri di comando islamisti: in tutto, 30 o 40 target in quattro diverse zone della Libia, obiettivi strategici per danneggiare seriamente le capacità militari del gruppo. I raid serviranno a spianare la strada a milizie armate locali sostenute dall’Occidente.

Le ambizioni belliche del Pentagono, aggiunge il Nyt, non sarebbero però condivise da una parte dell’amministrazione Usa, che teme che simili operazioni possano mettere in pericolo il già travagliato processo di unità nazionale.

E mentre ieri il parlamento di Tobruk restava impantanato per l’ennesima volta sul voto in merito al governo presentato dal premier designato al-Sarraj, sul campo di battaglia la tensione rimaneva alta. Epicentro degli scontri è ancora il confine tra Libia e Tunisia: le forze di sicurezza tunisine hanno ucciso ieri sette uomini armati, che si aggiungono ai 36 ammazzati negli ultimi giorni intorno alla città di Ben Guerdane.

Gli attacchi di lunedì, in cui sono morti anche 7 civili e 13 membri delle forze di sicurezza, sono stati definiti da Tunisi il tentativo dell’Isis di infiltrarsi nel paese e quindi la dimostrazione dell’efficacia della barriera in costruzione alla frontiera.