Un presidio a Strasburgo e un corteo a Roma, manifestazioni a Copenaghen, Oslo, Stoccolma: l’Europa dei movimenti e della sinistra si mobilita oggi a difesa del Rojava e per la liberazione del leader del Pkk Abdullah Ocalan e dei prigionieri politici nelle carceri turche. L’occasione è il 15 febbraio, 21 anni dalla cattura di Ocalan in Kenya per mano dei servizi segreti turchi.

A Strasburgo l’appuntamento è di fronte al Consiglio d’Europa (di cui Ankara è parte): sono previste 50-60mila persone, di cui centinaia arrivate nella città francese dopo lunghe marce da Lussemburgo, Francoforte e Ginevra.

Tre gruppi in cammino dalla scorsa settimana, internazionalisti, giovani curdi e donne, a cui oggi si affiancheranno idealmente movimenti, sindacati di base, partiti della sinistra, centri sociali, cittadini che a Roma alle 14 daranno vita al corteo che da piazza della Repubblica raggiungerà piazza Venezia.

«Per noi questi cortei sono fondamentali a spezzare l’isolamento di Ocalan e degli altri prigionieri del Pkk, un isolamento che in passato è stato possibile rompere per qualche giorno grazie alla solidarietà internazionale e agli scioperi della fame dei deputati curdi in Turchia», ci spiega Yilmaz Orkan dell’Ufficio informazione del Kurdistan in Italia (Uiki), organizzatore dell’iniziativa romana insieme a Rete Kurdistan, Centro Ararat e Comunità curda in Italia.

«Ci rivolgiamo alle istituzioni europee e italiane perché intervengano da un punto di vista diplomatico e legale: si tratta di rispetto dei diritti umani fondamentali sui cui l’Europa si fonda ma che ai curdi sembra non vadano applicati».

Diritti come quello all’autodeterminazione, che nel nord est della Siria la Turchia viola quotidianamente con un’occupazione militare brutale, avallata da Washington e Mosca. «Prima del 9 ottobre scorso – continua Yilmaz – con il crollo dell’Isis la situazione nel Rojava era diventata più tranquilla, stabile. Tantissimi sfollati sono tornati dalla Turchia e dal Kurdistan iracheno e l’Autonomia dava servizi ai cittadini, cibo, educazione, sanità. Con il ritiro Usa e l’attacco turco del 9 ottobre altre due città, Serekaniye e Gire Spi (Ras al-Ain e Tal Abyad in arabo, ndr), sono state occupate e altre 400mila persone sono fuggite dai loro villaggi».

Oggi lungo il confine turco-siriano ci sono militari del governo di Damasco e truppe russe, mentre gli americani si sono spostati ad Hasakeh e Deir Ezzor, a protezione – come pomposamente rivendicato da Trump – dei pozzi di petrolio alla frontiera con l’Iraq.

«La situazione rispetto a un mese fa è migliorata, ci sono meno bombardamenti con droni e aerei. Ma ancora oggi ci sono centinaia di migliaia di sfollati che non possono rientrare nelle città occupate dalla Turchia e che vivono nelle scuole e nei campi profughi aperti dall’Autonomia del Rojava».

«Molti altri sfollati – aggiunge Yilmaz – si muovono da Idlib verso Manbij e Kobane. È necessario un intervento internazionale per difendere il Rojava, per impedire alla Turchia di avanzare ulteriormente e all’Isis di ritornare. Protetto dall’avanzata di Ankara, Daesh ha ritrovato coraggio e spazio e sta compiendo attacchi. La Turchia è oggi l’ombrello di tutti i gruppi jihadisti presenti in Siria».

Idlib è il cuore pulsante della presenza jihadista e, da mesi, dello scontro ormai aperto tra Ankara e Damasco, che sta trascinando dentro la Russia nemica-amica della Turchia. «L’Autonomia e il Congresso nazionale del Kurdistan stanno aprendo canali di dialogo con il governo di Assad per difendere insieme e meglio la Siria dall’offensiva di Erdogan. Il cui obiettivo è chiaro: prendersi un pezzo di paese. Ad Afrin, Jarabulus, Idlib sono i jihadisti che gestiscono la vita quotidiana, anche a livello amministrativo. Anche il sistema educativo è cambiato, la prima lingua è il turco e non l’arabo».

Un’assimilazione che, secondo Yilmaz, prepara il terreno per il futuro. Un futuro che è già realtà con il trasferimento delle famiglie dei jihadisti nei villaggi curdo-siriani: «Sta avvenendo ovunque, ad Afrin, Jarabulus, Serekaniye, Gire Spi. I curdi sono fuggiti e subito sono stati sostituiti non da cittadini siriani, da profughi, ma dalle famiglie dei jihadisti. I civili arabo-siriani possono venire quando vogliono, non sono loro il problema. Erdogan sta creando una cintura arabo-jihadista di 100 km per 35 per spezzare la continuità territoriale e culturale della Siria e del Kurdistan».