Nel mezzo di una giornata di pioggia durante la quale Roma ha scoperto di essere razzista, le nuvole si aprono e il sole scalda i lotti delle case popolari di Tor Sapienza, quartiere lungo la via Prenestina che solo poche ore prima ha ospitato una vera e propria battaglia. Resta qualche cassonetto incendiato, un presidio delle forze di polizia e gli sguardi di chi osserva dalle finestre dei palazzoni. Solo poche ore prima si è consumato l’assalto del centro d’accoglienza di viale Morandi. La struttura, all’interno della quale vivono 36 minori, è stata presa di mira da un’agguerrita minoranza di qualche decina di persone che si è presa la briga di passare ai fatti e di interpretare il senso comune strisciante ormai da tempo anche da queste parti: «Noi italiani siamo abbandonati, per quelli là invece è tutto garantito». «Quelli là» sono gli stranieri, comunitari ed extracomunitari, senza permesso di soggiorno e richiedenti asilo politico, minorenni e adulti: tutti associati al degrado e al senso di solitudine che si respira tra le circa duemila anime che vivono nelle case popolari con la corte più grande d’Europa. Sono state costruite negli anni Settanta e Ottanta dalle giunte di sinistra e gli spazi destinati ai servizi sociali non sono mai stati utilizzati.

Il giorno prima degli scontri, una giovane donna aveva denunciato il tentativo di stupro ad opera di due uomini riconosciuti come «romeni». Alla grave aggressione era seguito il pestaggio di un minorenne bengalese ad opera di un gruppo di italiani. Poi, un’assemblea in piazza, toni accesi e parole di fuoco. La situazione è degenerata nella notte tra lunedì e martedì, quando un gruppo di incappucciati ha deciso di puntare verso il centro d’accoglienza richiamando in piazza altri cittadini del quartiere. È finita con una carica della polizia, autovetture danneggiate, lancio di sassi e bombe carta. Così, questo spicchio di periferia romana con le vie intitolate ai pittori dell’avanguardia italiana del Novecento, stretta tra il mattatoio e la rimessa degli autobus, le gru dell’ennesima speculazione edilizia da un lato e la grande occupazione multietnica di Metropliz dall’altro, è diventato il crocevia della crisi italiana e della guerra tra poveri che il disagio e gli imprenditori della paura rischiano di scatenare.

Se n’è accorto Matteo Salvini, segretario della Lega che da queste parti prova a prendere piede ormai da qualche tempo, grazie all’alleanza tra l’eurodeputato padano Mario Borghezio e i sedicenti «fascisti del terzo millennio» di CasaPound: «Ho ricevuto molte chiamate da Roma, in molti chiedono la mia presenza e quella della Lega», annuncia Salvini. Che poi promette: «Ci andrò». Ma dopo il 24 novembre, perché prima è impegnato nella campagna elettorale delle regionali dell’Emilia Romagna (Borghezio invece non perde tempo e annuncia per domani la sua presenza nella Capitale). Il leader leghista si produce in distinzioni pelose ma accarezza i pregiudizi razzistoidi: «Ogni violenza va sempre condannata. Ma l’immigrazione incontrollata e il razzismo nei confronti degli italiani, che non hanno alberghi pagati, rischia di alimentare reazioni sbagliate».

L’«albergo pagato» di cui parla Salvini quasi a voler indicare ancora una volta l’obiettivo da colpire è il centro d’accoglienza sotto assedio ora presidiato dai blindati: vi abitano soprattutto ragazzini, minorenni la cui custodia è affidata dalla legge al Comune di Roma. La struttura è nata nel 2011 a seguito dell’«emergenza Nord Africa, per ospitare minori stranieri non accompagnati provenienti per la gran parte dal Bangladesh», spiegano gli operatori. Oggi è un Centro di prima accoglienza per minori e una struttura aderente allo Sprar, il Sistema di protezione per rifugiati finanziato dall’Ue in rispetto ai trattati internazionali sul diritto d’asilo. Gli xenofobi hanno interesse a far circolare la psicosi dell’«invasione» e dell’Italia terra di bengodi per i migranti, ma gli ospiti in tutto il territorio romano sono solo 2600 e troppo spesso vivono in posti tutt’altro che confortevoli e con poca possibilità di spostarsi. «La verità – riflette a testa bassa un operatore – è che i centri rischiano di diventare ghetti e di cadere nella spirale del degrado dei quartieri che li ospitano, come accade a volte per i campi nomadi».

Il rischio che la fiammata di Tor Sapienza attecchisca in altri quartieri abbandonati al degrado è concreto. La scintilla d’innesco arriva da Corcolle, quartiere che si trova da questo lato della metropoli ma ancora più in periferia, al di là del Grande raccordo anulare: da quelle parti solo poche settimane fa sono scesi in strada contro la presenza dei migranti, degenerando in una vera “caccia al nero”. La guerra tra poveri, insomma, si è già mossa dalla cintura esterna della città verso la periferia meno estrema. Ora potrebbe arrivare nel cuore della città. Il 15 novembre, un corteo di «comitati contro il degrado e per la sicurezza» partirà dall’Esquilino per arrivare fino al Campidoglio, per quello che viene annunciato con enfasi come «il giorno della marcia della ribellione dei rioni e dei quartieri di Roma» contro «campi rom» e «immigrazione incontrollata». Ci saranno, ad esempio, quelli di Ponte di Nona, che già da qualche mese hanno dato vita al «Centro azioni operative», una specie di ronda che si prefigge obiettivi come quello di vigilare «contro il pericolo proveniente dal vicino campo Rom di via Salone». Molti di quelli che l’altra notte hanno manifestato a Tor Sapienza utilizzano la protesta contro i migranti di Corcolle a mo’ di esempio: «C’è poco da fare: se non ti muovi come hanno fatto loro, non ti ascoltano».