«Se cambia la musica cambieranno anche le istituzioni». Lo diceva Platone, ma la scena jazz romana aspetta ancora una conferma. «È ora che l’ambiente dei musicisti faccia rete e protesti, perché non è vero che ’con la cultura non si mangia’, anzi, la cultura è forse l’unico buon mezzo per far rivivere la città». Gli occhi di Javier Girotto non lasciano molto spazio alle remore. Penetrano come la spada della crisi che ci lacera ogni giorno. È ben deciso sul da farsi: «Protestare!».

Il noto sassofonista argentino è solo uno dei tanti musicisti che si sono incontrati alla prima Festa di tutto il jazz possibile per confrontarsi e sopperire allo stato, ormai avanzato, di degrado culturale in cui versa sia Roma che tutta la penisola.

«I politici stanno massacrando la cultura gestendo male la situazione – continua l’artista -. Uno dei tanti errori dell’amministrazione romana è stato quello di impedire la programmazione estiva della Casa del Jazz durante la Festa dell’Unità capitolina. Siamo in uno stato di degrado». Parla di Roma, ma anche dell’Italia e quando gli chiediamo se questa nostra condizione disagiata sia comune anche al resto del mondo, risponde: «Avviene più lievemente fuori dall’Italia, con la differenza che almeno loro la cultura non l’aggrediscono ma la rispettano. Il problema della carenza di spazi dove suonare, sia a Roma che in tutta la penisola, è dovuto non solo alla mancanza di fondi o agli organizzatori, ma anche a un sistema come la Siae che spesso non tutela noi artisti e si fa pagare l’ira di dio da locali che cercano di vivere con quel poco incasso che riescono a fare».

Poi aggiunge, «un musicista cerca di trasmettere felicità suonando, e vedere quest’aria di depressione per questi problemi non è affatto bello. Mi dispiace per i colleghi che hanno meno possibilità e, soprattutto, mi dispiace per i giovani talenti che non hanno tanti spazi per esprimere la loro arte».

«Là fuori comincia un lungo e gelido inverno – sottolinea il maestro Massimo Nunzi – e tutti i musicisti si sentono più soli, vista la crisi. L’Associazione nazionale dei musicisti di jazz (Midj) capitanata dalla presidente Ada Montellanico, ha portato alla luce le vere difficoltà auspicabilmente affrontabili con un superamento delle divisioni interne. Si è capito meglio che, mai come ora, siamo stati divisi, ed è, quindi, emersa una naturale necessità di aggregazione. Ma sono anche emerse una rabbia e una decisa presa di posizione contro alcuni personaggi del jazz italico che, secondo alcuni dei partecipanti, hanno approfittato della situazione. Si è parlato di bocconi succulenti pappati da pochi, e fame per i più. In realtà, c’è molto dolore e disagio perché la maggioranza dei musicisti si sente esclusa dalla festa e ha deciso di forzare la porta ed entrare. Questa è la parte che vedo più difficile da mettere in pratica».

«I valori di mercato – prosegue il vincitore del premio come Miglior arrangiatore dell’anno, decretato dalla rivista Jazzit – contano più che mai oggi. Il talento deve essere straordinario e i progetti nuovi e freschi. Suonare bene non basta più, ci sono migliaia di ottimi musicisti. La selezione si fa su questi parametri ora. Trovo utopico che si possa creare una class action contro i grandi nomi del jazz che, secondo alcuni, ’suonano troppo, sempre e solo loro’. Io non sono d’accordo. Nulla, per un artista può essere garantito. Io, personalmente, non voglio avere ’aiuti’, faccio da me, con la mia fantasia. E se la mia inventiva dovesse finire, e non mi chiameranno più, risolverò facendo il fabbro».

«L’Orchestra Operaia (che prende spunto dal prototipo americano dell’orchestra cooperativa della grande crisi del ’29, ndr), è un esempio pratico del mio ’dire’. Formata da alcuni fuoriclasse della vecchia e nuova scena italiana, l’Orchestra serve a suonare ad alti livelli e a offrire una possibilità concreta per i giovani compositori che non trovano un supporto per realizzare i loro progetti. Io e i miei quattro ’Lone Arrangers’ che mi affiancano nella direzione, scriviamo per dare un senso al talento e alla dignità del compositore e dell’arrangiatore, ma anche dell’orchestrale, in un contesto di collaborazione e condivisione del bene comune: la musica».

Per sei mesi, tutti i lunedì, sono stati sul pezzo e ora hanno più di 150 arrangiamenti. Sono tutti artisti competenti e noti alla scena jazz. Tra questi, c’è Pier Paolo Ferroni, il batterista mitragliatore che vanta collaborazioni con alcuni dei migliori musicisti contemporanei. E, anche lui, è fermo nel sostenere l’abbattimento dell’individualismo asettico.

«Oggi, qui, è successa una cosa incredibile – spiega -. Un proprietario di un locale è stato intervistato da un altro locale che ha una radio, e da questa intervista è nata una collaborazione tra i due che hanno, poi, coinvolto un altro locale. Mai avrei immaginato avrebbero potuto lavorare insieme, proprio come facciamo noi musicisti sul palco».

«Devo riconoscere che abbiamo proprio sbagliato con l’individualismo – afferma -. Ho cominciato a pensare a correre ai ripari da solo, ma da soli non si va da nessuna parte. Se non sei in un’equipe di persone, come ero con Frankie HI-NRG , con cui avevo una produzione a tutelarmi, hai sì un grande successo la sera del concerto, ma il giorno dopo non lo sa nessuno. Nessuno lo scrive, gli appassionati ti vengono a vedere, ma per la signora del pianerottolo non sei nessuno. Qui, hai sentito, ci sono musicisti di ogni genere, tutti bravissimi. Ecco, dove sono durante l’anno? Non ci sono più neanche i programmi tv. Nessuno si interessa realmente alla musica vera».

«Mi oppongo all’affermazione di John McLaughlin secondo cui ’non c’è più nessuna novità nel mondo’ – prosegue la mente ritmica dell’Organ Trio, la band creata per ’non farsi trovare alla sprovvista’ quando il chitarrista inglese confermerà l’invito a partecipare a un suo nuovo progetto -. Io ho scoperto che ci sono tante novità in giro grazie ad altri musicisti che mi hanno segnalato nuove formazioni e progetti, tra cui il nuovo jazz, che si chiama Bam, Black American Music, conosciuto tramite Fabio Morgera, un trombettista straordinario che insegna e lavora a New York, venuto ospite con l’Operaia. Mi ha detto che lo swing e il jazz non si suonano più. Sono diventati questo Bam, un riappropriarsi della cultura nera, di quello che gli è stato tolto. Questo per me, è uno stimolo a non cedere la resa. Non bisogna abbattersi. Vorrei scrivere a John che non è vero che non accade più niente, ma poi finisce che non mi chiama più».

La futura collaborazione con John McLaughlin, il chitarrista inglese che aveva partecipato, assieme a Billy Cobham, alle registrazioni di Bitches Brew e In a Silent Way di Miles Davis, è arrivata dopo la pubblicazione di un suo video in play along in cui suona due pezzi difficilissimi da 15 minuti l’uno.

In Inghilterra e negli States c’è ancora rispetto per l’arte dei suoni, tant’è lo stupore manifestato dallo storico sassofonista e cantante Napoleon Murphy, pietra miliare della miglior formazione di Frank Zappa, che ha chiesto a Pier Paolo Ferroni «cosa succede in Italia? Perché non si lavora? Perché non si suona?».

Eviteremmo una brutta figuraccia, se solo avessimo una dignitosa risposta in controbattuta.