William Kentridge è stato, per sua stessa confessione, uno di quei bambini che guardava le nuvole, cercando di rintracciarvi per gioco teste di animali e figure fantastiche. Un sognatore con il naso puntato verso il cielo, che ha sempre custodito dentro di sé l’infanzia «non per nostalgia, ma per ricalibrare alcune credenze emotive che, da grandi, è necessario riscoprire». La sua è una ricerca insistita dello stupore, di uno sguardo puro. Si può interpretare il mondo come una serie di fatti, oppure come un processo in svolgimento, dove tutto muta. Lui, naturalmente, propende da questa parte: «Il mio disegnare è solo una verità provvisoria».

Artista, regista teatrale e di film d’animazione, Kentridge dal suo Sudafrica (è nato a Johannesburg nel 1955) ha imparato una lezione che non lo ha abbandonato più: «Nella storia ci sono cose di cui siamo orgogliosi e vicende che provocano un’enorme vergogna. E il trionfo di uno è spesso la catastrofe per l’altro». È questa, in sintesi, l’idea che ha guidato l’opera site specific che l’artista ha pensato per Roma, su quei cinquecento metri di muraglione lungo il fiume Tevere (da ponte Sisto a piazza Mazzini) e che, dopo anni di intricati percorsi burocratici e veti incrociati, verrà finalmente inaugurata il 21 e 22 aprile prossimi.

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L’assassinio di Pasolini

Triumphs & Laments (dove il secondo termine sta per «sconfitti»), è un wall drawing sostenuto dall’associazione Tevereterno (fondata nel 2004 dall’artista americana Kristin Jones) che narra la storia capitolina senza una cronologia precisa, come fosse una Colonna Traiana srotolata. Alcune connessioni sembrano hard e provocano cortocircuiti semantici ma, dice l’autore, «permettono una conversazione aperta»: l’uccisione di Remo entra in relazione con l’assassinio di Pasolini, Roma rimasta orfana del papa che scelse Avignone con le vedove di Lampedusa, il Carnevale al ghetto con le deportazioni razziali. Ma in scena ci sono anche le «bellezze»: Mastroianni nella Dolce Vita e la sensualissima estasi di santa Teresa del Bernini. «Quando vidi questa scultura avevo diciotto/vent’anni e mi sembrò straordinariamente erotica. Era un soggetto religioso così coinvolgente e poi c’era la trasformazione prodigiosa del ’freddo’ del marmo… Uno dei Tronfi non poteva che essere lei». Spiega così Kentridge la sua «processione» (ottanta figure alte circa dieci metri, che si susseguono in un montaggio di attrazioni alla Ejzenstejn) al pubblico accorso numeroso a Palazzo Barberini, nella prima di una serie di conferenze che lo vedono protagonista assoluto dell’aprile romano. In veste di conferenziere, oggi sarà ancora al Maxxi (con tanto di mostra) e venerdì alla British School, mentre dal 16 il Macro proporrà un focus sul monumentale fregio, con l’esposizione dei bozzetti a carboncino e dei ritagli di figure e oggetti: quelli che verranno usati come stendardi dai performer in occasione dell’evento musicale e teatrale concepito da Kentridge e Philip Miller per l’inaugurazione.

Sotto il soffitto affrescato da Pietro da Cartona con le sue macchine barocche della visione, stimolato da Massimiliano Finazzer Flory, curatore degli incontri Il Gioco Serio dell’Arte, l’artista sudafricano pondera le parole e intanto affonda in un mondo immaginario. Si spazia dalla pantera di Rilke che si muove per cerchi concentrici fra le sbarre («mi ci riconosco in pieno, sono io nello studio quando giro intorno a un centro sconosciuto») al poeta Majakovskij, ma soprattutto si discute di migrazione delle immagini e idee. Da una incisione a una pièce teatrale, da un disegno a una sequenza animata, da un foglio di carta a una scultura. «È un’eredità della follia del Dadaismo di cent’anni fa – dice divertito Kentridge – una provocazione che va colta ancora oggi. Ogni volta che vediamo un’opera, siamo portati a cercare un senso collegando frammenti fra di loro: l’arte ci mostra cose sorprendenti per capire il mondo». Triumphs and Laments è soprattutto una processione e, come tale, condivide con le antiche sorelle una caparbia volontà di esorcismo della morte, tra cancellature, sbavature del segno e reiterazioni di impronte. «Ho guardato molto anche ai Trionfi della Morte, a quelle allegorie della peste in cui si pensava che, ballando, si potesse sconfiggere la malattia e allontanare la paura», afferma.

William Kentridge in his Johannesburg studio with Kristin Jones - ph. Chris Waldo
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Il suo gigantesco fregio in bianco e nero non è un graffito: è costruito con la sporcizia e con le sedimentazioni naturali che si trovano sui muraglioni lungo il fiume. Le immagini vengono fuori perché i loro contorni sono stati puliti e un giorno saranno ingoiate nuovamente dagli agenti atmosferici e dall’inquinamento. Svaniranno, affette come sono dalla stessa caducità dell’umanità. «Quando mi sono messo al lavoro su questo progetto, avevo dato per scontato che la parte scura sarebbe stata costituita dallo smog, invece ho trovato batteri naturali. In fondo, è stata una scoperta incoraggiante. Ho realizzato l’opera con l’acqua non perché io mi senta un eco-guerriero, ma perché il paesaggio aveva nascosto la Storia».