Il 16 dicembre il Tempo avrebbe appuntato un secolo sul petto di Milton Gendel. Il secolo, decorazione da patriarchi! Gendel, come tutti gli uomini aggraziati, non doveva amare le cerimonie ufficiali. Si è sottratto perciò a questa incombenza spegnendosi prima: l’11 di ottobre. Era nato a New York nel 1918, quando l’America era in ascesa e l’Europa disfaceva il gomitolo dei suoi imperi. I Gendel erano una famiglia ebraica proveniente dalla Bielorussia, Milton era il secondogenito di due fratelli. Come molti intellettuali del Novecento, ebbe dapprima una formazione scientifica, medica a esser precisi, dalla quale poi si volse a studi differenti. Lo affascinavano le arti figurative; per accertarsi della sua vocazione seguì alla Columbia University i corsi di Meyer Schapiro, che lo avrebbe preso come suo assistente. Possedeva un ingegno pieghevole, versatile, recettivo, polýtropon, come dicevano gli antichi. Per certi versi il suo intelletto somigliava a quello di Vivant Denon, viaggiatore anch’egli e uomo impeccabile dai molteplici doni; doni scoperti quasi accidentalmente, come si scorgono le pagliuzze d’oro rutilare fra i ciottoli dei fiumi nelle fiabe o nei romanzi d’avventura.
Al pari di Denon, Gendel partecipò a una campagna militare: il francese visitò l’Egitto, l’americano la Cina. La loro intelligenza era una navicella agile sulle cui vele il Caso soffiava un alito propizio. Quando nell’agosto del 1945 Gendel si arruolò volontario, il suo grado era quello di sergente e fra i suoi compiti non figuravano i reportage di guerra. Casualmente, dunque, cominciò a scattare fotografie. Dapprincipio lo guidò una curiosità d’amatore d’arte o di viaggiatore colto: fotografava edifici, piazze, templi; poi i suoi interessi si estesero alla gente, ai mercati e agli spazi urbani. Anche la macchina fotografica cambiò: la rudimentale Brownie venne sostituita da una Leika, che Milton riuscì a farsi prestare da un civile tunisino, Johnny Alessi, al quale i locali avevano dato un nome di racconto salgariano, il Pirata di Shanghai. In America fece ritorno alla fine del 1946 con degli scatti magnifici.
Un problema con Mao
È il 1949, Gendel ottiene una borsa di studio Fulbright per tornare in Cina. Ma la Cina era mutata. Il nuovo governo di Mao Zedong appariva poco favorevole ai borsisti americani sicché il giovane Gendel dovette scegliere un’altra meta. Il disfacimento del suo sogno asiatico si sarebbe potuta dire una improvvida bizza della sorte, non fosse che gli imprevisti sembravano conformarsi alla sua vita con quella docilità miracolosa con la quale la corazza di Patroclo si adattò al corpo di Ettore. Roma, la sua seconda scelta, sarebbe stata altresì la sua seconda patria. L’Italia nella quale sbarcò il giovane americano era ben diversa da quella visitata, all’inizio del secolo, da Henry James o da Edward Hutton. Il paesaggio urbano era adesso spoglio e rovinoso, le campagne brulle e squallide. Mutato era anche l’atteggiamento dei viaggiatori, che era meno deferente e più spavaldo di quello descritto da Harold Acton allorché gli stranieri ricercavano in Italia: «l’impareggiabile atmosfera culturale, l’aura persistente di poeti e artisti supremi, che dava a quei forestieri un blando senso di esaltazione, addirittura di superiorità. La loro vita quotidiana poteva anche essere scialba, ma li circondava la bellezza, dalla quale erano saturati perfino nel subcosciente».
Dal dopoguerra il centro della vita artistica si era trasferito in America e «ART news», la rivista newyorkese della quale Gendel diviene presto il corrispondente italiano, esercitava un’influenza non limitata alla pittura statunitense. Questa attitudine disinvolta di giovane e brillante americano nei riguardi delle vestigia antiche si ritrova nei suoi scatti. È una Roma, quella mostrata da Gendel, di vecchi dei che, sotto l’apparenza di simulacri di pietra, vivono ringuattati, ora celando il loro dispetto per l’indiscrezione degli uomini, ora osservando curiosi i segni del mutato corso dei tempi, come le Fiat giardinetta e gli abiti attillati. Sono numi spiumati e pieni di acciacchi, simili a quelli che Heine aveva immaginato popolassero gli anfratti selvosi, dopo la caduta del paganesimo. Gendel li fotografa mentre vengono fasciati e medicati da operai non meno indifferenti alla solennità della loro funzione degli aguzzini che, nelle tele dei Caravaggio, suppliziano con diligenza le carni dei martiri più venerandi. L’eternità dell’Urbe, fuor dai fasti retorici, si realizza in una contemporaneità metafisica di antico e di nuovo nella quale, fra una scalinata, un campanile e la figura allampanata di un amico pittore, riaffiora il gusto surreale dell’accostamento insolito e faceto.
Dal gruppo di Breton, lungamente frequentato a New York (fu anche condirettore della rivista surrealista «VVV»), aveva ereditato il piacere dell’arguzia; piacere nel quale, nonostante l’ambizione dei propositi, si risolvevano molte delle loro trovate. Non volle portare con sé, per contro, i barilotti di polvere pirica coi quali Breton si divertiva a spaventar la gente, giacché in fatto d’umorismo prediligeva il modello anglosassone, più conciso ed elegante, di un Beerbohm o di Waugh. Al pari delle tele surrealiste, le sue foto ritraggono incontri fortuiti e geometrie inconsapevoli: Amerigo Tot e Jean Purcell, in basso a sinistra sulla scalinata di Piazza di Spagna, che ripetono, senza avvedersene, l’immagine delle due torri di Trinità dei Monti in alto sulla destra; Peggy Guggenheim che, in bianco incorniciata dalla porta, prende qualcosa dell’astratta geometria del quadro alla sua sinistra; o ancora Dalì, al caffè in velluto nero, tra le luci dei lampadari che, immillate dagli specchi, costituiscono il baluginante corteo di questo Noronsoff vanitoso. Gioco di simultaneità e corrispondenze formali, in raffinate composizioni quasi astratte di linee, nel quale, tuttavia, nulla è ricercato o affettato e tutto è pazientemente atteso.
Ingegno, quello di Gendel, duttile, molle, docile all’impressione delle cose. Uomo «dai modi gentili – ricorda Barbara Druidi nel suo pregevole libro Milton Gendel. Uno scatto lungo un secolo – affabile e più incline al sorriso che al broncio o al corruccio», Milton Gendel «ha cercato sempre – per quanto possibile – di mettere ognuno a proprio agio, dando spesso la gradevole sensazione al suo interlocutore di turno che trovarsi lì ad ascoltarlo fosse per lui la cosa più desiderabile del mondo». Egli usava, non v’è da dubitarne osservando le foto, questa cortesia anche con la Realtà, la quale, come amorosa colomba, finiva col deporre il suo uovo di Surrealtà. Milton attendeva paziente, senza mai andare a turbarne la quieta pace del nido.
Età di principi e mecenati
Gli istanti che immortalò sono i grani eterni nella collana monotona dei giorni; eppure, se ricomposti, questi scatti, dove il tempo è interdetto, proprio di un tempo, effimero, caduco (e di una classe) lasciano affiorare il disegno. Età di principi, mecenati, artisti, scrittori e mercanti che onorarono, ciascuno a suo modo, la cultura e l’arte. Uomini ai quali Gendel si strinse in nodi di stima e d’amicizia, ritraendoli nelle sue foto, e che oggi ci appaiono lontani come fossero vissuti al tempo di Ozymandias. O forse di Boucher, giacché dai suoi scatti, come dalle pagine di Louise de Vilmorin, s’emana una inconfondibile douceur de vivre.
Può darsi esista una preternaturale fatalità nelle date: Milton Gendel nacque nel 1918, alla conclusione di quella Grande Guerra che avrebbe determinato la fine degli Imperi centrali, e morì quando un altro Impero, quello del Gusto e dell’Intelligenza, stava già declinando. In tempi bui le sue fotografie sono scatti di luce.