La questione delle proprietà comunali che a raffica stanno venendo sfrattate dal Comune a Roma, appare sempre più qualcosa di grottesco, se non di insulso. Comunque rivelatore. Ultima in ordine di tempo la Scuola popolare di musica di Testaccio, cacciata dalla sua sede dentro l’ex Mattatoio, con la richiesta di esosissimi arretrati da pagare.

Stessa sorte sta toccando a molte iniziative che senza lucro e con finalità culturali sono alloggiate in spazi comunali: va oltre la soglia del ridicolo il caso del Circolo Gianni Bosio, piccola ma decisiva struttura che è luogo di indagine delle radici antropologiche della cultura popolare. Avendo ottemperato allo sgombero intimato qualche tempo fa, proprio per questo motivo ora non può nemmeno concorrere ai bandi per le nuove assegnazioni comunali.

Ma è lunga la teoria di luoghi e animatori di creatività “chiusi” a vario titolo dalla forza pubblica: dall’Angelo Mai privato di quello che prima era un prato sdirupato in fondo a Caracalla, all’Orologio sotto i tesori borrominiani, sprangato dopo più di 30 anni dalla commissione che vigila sulla sicurezza.

Tutto questo segna una esplosione del bubbone burocratico che Roma governa, dirige, si spartisce, e magari anche si ride. Quella finta, anzi fintissima legalità invocata e sostenuta dai giornali della destra, che va sempre bene data in pasto come fumo confusionale rispetto ai reali problemi, costosi e drammatici. Non a caso molti di questi provvedimenti «perbenistici» e «moralizzatori» sono stati avviati nel periodo del commissario Tronca, fautore di un potere equidistante da tutti, ma certo lontanissimo dai romani e dalla cultura. Il problema è quello dell’assoluta assenza della politica, di ogni colore, dalla vita reale della città. Non c’è uno straccio di rappresentante del potere che avanzi un’idea, mettendoci possibilmente la faccia.

Son passati meno di 40 anni, ma sembrano secoli, da quando l’assessore Renato Nicolini studiava con gli uffici comunali dell’avvocatura gli strumenti percorribili per allargare gli spazi della cultura. Ora per gli spazi culturali l’input allo sgombero viene forse dall’assessorato al patrimonio, ma l’assessore «alla crescita culturale» Bergamo, anche vicesindaco, pare trincerato dietro la formula magica e ignava dei «bandi». C’è un bando su ogni cosa, per qualsiasi attività e per ogni postazione: ma i bandi possono rivelarsi un magnifico imbroglio, visto che qualsiasi commissione giudicatrice potrà sempre affermare che al di là del valore dei titoli di ciascuno, Tizio risulterà più adatto di Caio alle finalità che quel bando richiedeva. Ultimo esempio, l’accorpamento di tutti i teatri di cintura nella struttura satura del Teatro di Roma, che li rimetterà a bando, moltiplicando gli aspetti «discrezionali» di ogni scelta.

Per tornare alla Scuola di musica oggi sfrattata da Testaccio, salta agli occhi come ancora nessun provvedimento invece sia stato preso sulle molte case che si erano scoperte affittate a prezzi men che simbolici a celebrità a vario titolo e inciucio. E neanche ai ristoranti che prosperano a cari prezzi sul fascino fasullo dei Masterchef.

La Scuola popolare di musica è un archivio, vivente e unico, della canzone popolare e politica (benché nata nel 1976 per il jazz). E non è solo cori, banda, ensemble musicali, spesso chiamati a esibirsi anche all’estero (con Giovanna Marini «capobanda»). Ma è soprattutto scuola, in senso letterale, dove molti giovani apprendono le tecniche del suono e della voce, e fanno continuare ad esistere, prezioso, un patrimonio civile che non portando lustrini né affari, da noi non resisterebbe davvero a lungo.