Claudio, nipote di Tiberio, divenne imperatore nel 41. Nonostante fosse dotato di scarso appeal, lui zoppo e balbuziente, fu capace di entrare a testa alta nella storia di Roma: sua l’edificazione del nuovo scalo di Portus e degli acquedotti Aqua Claudia e Anio Novus; sua la conquista della Britannia. Nel 54, probabilmente avvelenato dalla moglie, morì. Agrippina, tuttavia, non gli lesinò onori e gli dedicò sul Celio un luogo di culto immenso, elevato su un podio di centottanta per duecento metri: il tempio del Divo Claudio.

Alla luce del sole, emblema inquietante di un potere invincibile, il complesso doveva incutere soggezione con la sua struttura compatta e squadrata, nello stile tanto disdegnato da quel Victor Hugo che sempre compianse «la tristezza lugubre degli angoli retti». Tali malinconie sono felicemente esorcizzate da Roma Sotterranea, l’associazione no-profit nata nel 2000 dall’idea di intraprendenti speleologi urbani appassionati di archeologia, convinti della necessità di implementare l’ordinaria indagine scientifica con lo studio degli irregolari ambienti ipogei.

Un’urgenza che appare in tutta la sua evidenza sotto il Celio, dove sono celate storie tanto essenziali quanto invisibili a chi si limita a restare in superficie. È, quindi, un privilegio scendere nelle sue viscere con due guide d’eccezione: Adriano Morabito, il presidente dell’associazione, e Marco Gradozzi.

Planimetrie in profondità

L’appuntamento concordato, presso la basilica dei Santi Giovanni e Paolo, è al cospetto del campanile del convento dei Padri Passionisti, innalzato sull’angolo sud-occidentale delle fondazioni del tempio. Di queste, resta ben poco: Giorgio Vasari, nella Vita di Giuliano da Maiano, racconta che i suoi blocchi di travertino furono reimpiegati in quantità per la costruzione di Palazzetto San Marco. Da una scala chiusa al pubblico ai piedi del campanile, raggiungiamo il livello dell’antica strada romana, a quattro metri di profondità. Rodolfo Lanciani, l’unico a disegnare una planimetria degli ipogei prima di Roma Sotterranea, la chiamò via del Tempio di Claudio. Affiancata da un maestoso portico a due ordini, lavorato in bugnato nel travertino e lungo almeno duecento metri, conduceva fino all’Arco di Costantino.

Quando, dal piano di calpestio del I secolo d.C., scendiamo ancora più giù, davanti ai nostri occhi, sottratti al buio dal fascio di luce proiettato dalle torce, si dischiudono ambienti che altrimenti faticheremmo a immaginare nella Città Eterna. Si intravedono già dalla prima galleria: promettente accesso a estese cave di tufo lionato, pozzolana e travertino segnate ovunque dalle tracce delle picconate. Il loro sfruttamento deve essere iniziato nel VI secolo, quando si concluse la vita del tempio.

Grandi camere dalle pareti tufacee si susseguono, divise dai pieni risparmiati dai minatori e da sparuti pilastri moderni risalenti al XVI secolo, epoca a cui risalgono diversi atti notarili studiati dal Lanciani: il convento soprastante concedeva libera licenza ai cavatori, cedendo loro il materiale di cava in cambio del diritto a tenere per sé le eventuali opere d’arte rinvenute.

Sotto il Celio non fa freddo; il termometro segna 14 gradi e il suolo sul quale si cammina non è omogeneo. Il soffitto si alza e si abbassa, rendendo necessario il casco, perché si calpesta terra di riporto distribuita irregolarmente. L’ipotesi è che parte di questa provenga dagli sterri eseguiti negli anni dell’occupazione napoleonica, tra 1809 e 1814, per sgombrare il Colosseo e il Campo Vaccino. Nulla si crea e nulla si distrugge: la terra di risulta dovrebbe essere stata occultata qui.

A colpire l’attenzione sono i 16 pozzi che si incontrano durante il percorso. Cinque di essi, più larghi e posti a diversi metri di altezza dal suolo, dovevano essere utilizzati per trasportare all’esterno il tufo estratto. Gli altri, dal diametro di circa 90 cm, permettevano invece di arrivare comodamente fino in fondo, grazie a gradini scavati nelle pareti. Sono precedenti al 54 d.C e probabilmente servivano a raggiungere l’acqua. È questa, infatti, a riservare la maggiore delle sorprese. Di fronte a noi, dopo aver attraversato diverse sale, si distende un vero e proprio laghetto, dall’acqua batteriologicamente pura. «L’acqua, il cui livello varia in base all’intensità delle piogge, filtra dal giardino del convento sulle nostre teste», chiarisce Marco Gradozzi. «Sotto tuttavia, tra i dieci e i venti metri di profondità, a dargli manforte scorre la falda acquifera principale di Roma, che ha origine dall’area sulla quale oggi poggia la sede della Fao e arriva fino a via del Tritone. Nei punti in cui le valli lasciate dai primitivi affluenti del Tevere, quelli che hanno scolpito i famosi sette colli, intercettano la falda tagliandola ortogonalmente, sgorgano tutte le sorgenti della città: l’Acqua di San Clemente, l’Acqua di Mercurio, l’Acqua delle Camene, le Acque Sallustiane».

La monotonia delle pareti, scolpite da concrezioni, è interrotta in qualche caso da piccole nicchie, che potevano servire da ancoraggi per un ponteggio posto a pelo d’acqua, e dai movimenti rapidi del dolicopoda: un insetto privo di ali con lunghe zampe e antenne, caro ai minatori perché segnalava loro la prossimità di un condotto d’aria.

La notizia più antica sulla presenza di una cava nella zona è del 1003 e si legge nel Regesto Sublacense, una raccolta di note catastali redatta dai benedettini, proprietari di molte terre sul Celio. «Il documento 91 riporta l’atto notarile di una casa venduta in cima alla salita lungo la strada principale, definita iuxta cava», spiega Gradozzi. «In seguito si parla anche di una cava maior, il che lascia presupporre l’esistenza di ulteriori diramazioni secondarie».

Vicini alla cisterna

La storia del Celio subì una drastica cesura in occasione della Lotte per le Investiture, inaspritasi con l’ascesa al soglio pontificio di Gregorio VII. Nel 1084 Enrico IV, per ribadire la supremazia imperiale, entrò a Roma provocando la fuga a Castel Sant’Angelo del papa, che chiese aiuto a mercenari normanni capitanati da Roberto il Guiscardo. Questi, nella primavera del 1084, non si fecero scrupoli nel mettere a ferro e fuoco l’intero colle fino al Colosseo, distruggendo le basiliche dei Santi Quattro Coronati e di San Clemente. «Dopo questo cataclisma – ricorda Gradozzi – si avvertì l’esigenza di mettere in sicurezza la sede papale del Laterano, dislocando dei monasteri fortezza sulle principali strade di accesso. Così nel 1150, sfruttando le strutture della cisterna dell’acqua Claudia, fu costruito il primo nucleo del convento dei Padri Passionisti, da cui un tempo la vista spaziava fino a Porta San Paolo».

Il fatto è che, per capire al meglio l’evento, bisogna avere l’umiltà di guardarlo dal livello delle fondazioni: sottoterra.

«Al momento i soci attivi dell’associazione sono 105», rivendica Adriano Morabito. «Siamo architetti, storici dell’arte, ingegneri, geologi; tutti volontari. Non siamo improvvisati Indiana Jones: nel 2011 abbiamo stipulato una convenzione con la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e manteniamo ottimi rapporti con la Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma. Le istituzioni ci chiamano ogniqualvolta hanno bisogno di noi».

A loro finiscono per ricorrere anche i religiosi, per via di una curiosa legge. «Molte chiese in Italia sono gestite dal Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’interno, con il quale collaboriamo per tramite della Soprintendenza speciale. Si tratta di proprietà confiscate al clero dopo la Breccia di Porta Pia, in seguito alla cosiddetta legislazione eversiva dell’asse ecclesiastico, e da allora mantenute a spese dello Stato nonostante il loro utilizzo sia stato lasciato agli ecclesiastici. Solo a Roma, sono circa 90. Tra queste San Salvatore in Onda, Sant’Eusebio e Santa Pudenziana, le prime tre chiese di cui abbiamo studiato gli ambienti sotterranei, ma anche San Carlo ai Catinari, Santa Maria in Via Lata e, per l’appunto, Santi Giovanni e Paolo».

Non si esauriscono qui i progetti curati da Roma Sotterranea, che inizierà presto lo scavo di alcuni pozzi presso il Tempio di Giove, sull’Isola Tiberina, e lo svuotamento del sistema di scarico delle acque dell’Emporium. Nel frattempo, procedono con sistematicità la mappatura delle sterminate cave all’altezza di Villa Gordiani e il rilievo della cloaca maxima, di cui resta ancora ignota l’origine. Negli oscuri meandri sotterranei, dove la rigorosità della scienza e il gusto dell’esplorazione sono gli orizzonti da seguire, sembra davvero scongiurata la tristezza lugubre degli angoli retti.