Una manciata di foto in bianco e nero ci porta a Roma nel marzo 1978. Siamo alla Galleria dell’Oca, e tra il pubblico – quasi tutti giovani – riconosciamo la sua titolare, Luisa Laureati. Alle pareti e sul pavimento le ingombranti installazioni con ferri, neon, fascine di Mario Merz. Poco distante, gli stessi locali ospitano anche i quadri di Giacomo Balla, Carlo Carrà, Giorgio de Chirico, Filippo de Pisis, Giorgio Morandi, Alberto Savinio, Gino Severini. Cosa ci fa quel campione dell’arte povera tra i pittori più importanti del nostro inizio Novecento? Un assortimento del genere non si era mai visto prima, e già all’indomani dell’inaugurazione la domanda accomunava le recensioni sui quotidiani. Lo stupore dei contemporanei è lo stesso di chi, oggi e fino al 26 febbraio, visita il Palazzo delle Esposizioni. Qui infatti Daniela Lancioni ha riallestito quella lontana collettiva facendone il secondo capitolo di Mostre in mostra, ciclo da lei stessa avviato nel 2019. Alla base c’è la scrupolosa ricerca storica che da sempre ne connota l’attività di curatrice, e trova i punti fermi nel volume Roma in mostra (1995) come nella memorabile Anni 70. Arte a Roma ordinata nello stesso luogo giusto dieci anni fa.

Artisti, critici, galleristi, collezionisti, amatori: una mostra convoca pressoché tutti gli attori del sistema dell’arte. È un evento dalla durata effimera, ma che spesso offre una sintesi perfetta del clima e degli orientamenti di una stagione. Talvolta li riassume, altre li anticipa. Per questo da ormai svariati anni, in Italia come all’estero, ci si impegna a studiarle per via di libri, saggi, convegni o, nei casi più ambiziosi, appunto, mostre che reinscenano mostre. Oltre al carattere periodico, l’indagine di Lancioni si distingue per l’ambito geografico e la scelta di non prediligere casi già celebrati. Meglio personali e collettive ancora insondate dalla storiografia ma che pure, come si intende studiandone la ricezione coeva, hanno segnato un cambio sensibile sulla scena romana, e dunque italiana. L’assunto di partenza è poi dichiarato: la mostra odierna – il reenactment, come si usa dire – ha ragioni proprie che impongono margini di approssimazione. Vanno fatti i conti con le opere non identificate, oppure finite chissà dove, o ancora con i prestiti non concessi. Impossibile consegnare al visitatore una mappatura in scala 1:1 di ciò che fu. Più utile evocarne lo spirito, sollevare problemi, riaprire questioni. Tocca invece al catalogo – che in questo caso conta saggi di Paola Bonani e Francesco Guzzetti, insieme a quello della curatrice – fare un rigoroso esercizio di filologia: con documenti riesumati, foto inedite, ma pure le interpretazioni che la distanza storica finalmente permette.

Di Mario Merz, Balla, Carrà, de Chirico, de Pisis, Morandi, Savinio, Severini finora si sapeva poco, anzi quasi nulla vista l’assenza di un catalogo. Nei fatti è stata una mostra contenuta: appena una decina di lavori, allestiti sui due piani di una sede che aveva trovato da tempo il proprio ruolo nel circuito non soltanto romano. Aperta nel 1965 nella laterale di via di Ripetta da cui aveva preso il nome, la Galleria dell’Oca si era dapprima affermata come uno spazio eclettico. Lì si acquistavano libri, riviste di settore, dischi, abiti folk, oltre a disegni ed edizioni grafiche. Tra i clienti c’erano Ungaretti, Pasolini, Morante. L’atmosfera però rimaneva informale, data anche la presenza del bar all’interno. Poi, a inizio decennio, la svolta. Luisa Laureati era diventata referente di Roberto Sebastián Matta e, con il sostegno di Giuliano Briganti sposato nel 1974, aveva impresso un assetto più ortodosso alla attività. Da allora, e fino alla chiusura nel 2008 come si evince dal regesto di Giulia Lotti, l’alternanza tra i giovani dell’avanguardia (Paolini, Salvo, Boetti, per esempio) e le figure storicizzate (specie de Pisis, Morandi, de Chirico) divenne la sua cifra.

All’impresa del 1978, comunque, Laureati non lavorò sola ma con Luciano Pistoi e Gian Enzo Sperone, suoi soci del tempo. Dunque altri due galleristi, professionalmente nati a Torino e da sempre acclamati come gran scopritori di talenti. Il loro sodalizio rispondeva al cambio geografico imposto a molti mercanti italiani dalla crisi petrolifera di inizio decennio. E parimenti indicava la ricerca di nuove vie, alternative ai linguaggi che loro stessi avevano lanciato tanti anni prima. Alla Galleria dell’Oca fu così che quei tre nomi tentarono un esperimento, peraltro rimasto senza repliche. Ciascuno portava qualcosa: della propria storia, come dei propri amori di collezionista.

foto storica della mostra alla Galleria dell’Oca

Premesse del genere già bastavano per rendere la mostra insolita. Ma la vera novità stava nell’apparentare Mario Merz ai maestri di inizio secolo con tutto lo spaesamento che ne derivava. Oltre all’epoca diversa, tra loro non esisteva alcuna continuità tecnica, stilistica, formale. Semmai era sul piano dell’immaginario che andavano cercate le assonanze: le assi sotto l’igloo evocavano i pavimenti dechirichiani; gli animali, dipinti a spray o tassidermizzati, sembravano usciti dagli incubi di Savinio. I quadri più antichi erano stati spogliati dalle loro preziose cornici – come vediamo dalle nove foto al Palazzo delle Esposizioni – e ciò sembrava ridurne l’aura avvicinandoli ai nudi materiali di Merz. Una tale convivenza era inimmaginabile solo poche stagioni innanzi, ed esprimeva qualcosa di ideologicamente molto forte. I dogmi dell’ultima avanguardia erano caduti: ora si poteva addirittura incontrare un suo esponente in un contesto fatto di pittura che, per quanto altissima, rimaneva la più tradizionale.

Il passato stava per irrompere nei dibattiti, e quella mostra ne dava conto con tutto il fascino di quanto mantiene posizioni sfumate perché ancora in divenire. Un istante dopo sarebbero arrivati il volume Feltrinelli di Rossana Bossaglia sul Novecento di Margherita Sarfatti, gli studi di Maurizio Fagiolo dell’Arco su de Chirico, Letteratura, arte e miti del ’900 con cui Zeno Birolli inaugurava il Pac di Milano. E soprattutto sarebbero giunte le voghe figurative e neopittoriche che avrebbero rivitalizzato molti protagonisti della stagione alle spalle.

Guardiamo infine al calendario. Merita attenzione una coincidenza. 15 marzo 1978: fa non poca impressione accorgersi che l’inaugurazione precedeva di un giorno il rapimento di Aldo Moro. Se vogliamo leggere la mostra alla Galleria dell’Oca come una cesura tra un «prima» e un «dopo», eccone il segno più eloquente.