Giorgio ha 10 anni e frequenta la quarta elementare. È nato e vive a Torino, ma i suoi documenti sono rumeni. La madre Anna mostra la pagella. Molti 8 e 9, un paio di 7 e un 6. «L’anno scorso andava ancora meglio, ma da quando ci hanno abbattuto la baracca e viviamo in quella di mio cugino ha perso qualche lezione e poi vedi, abbiamo solo questa piccola lampadina, è difficile studiare quando viene buio». È ora di cena, Giorgio continua coi compiti. Tutto intorno altre baracche ancora in piedi e abitate confinano con quelle che una volta ospitavano i vicini di una vita nel campo rom di via Germagnano, ridotte oggi a cumuli di ricordi.

La Strategia Nazionale per l’inclusione dei rom, sinti e camminanti nasce su impulso della Commissione europea che ha anche stabilito i tempi, 2011-2020. Tra meno di tre anni dovranno essere smantellati tutti i campi legali e illegali che rappresentano, nella realtà europea, una anomalia. Le linee guida riguardano il diritto all’abitare, alle cure sanitarie, all’istruzione e all’accesso al lavoro.

Ma di questo problema, che incide molto anche sull’aspetto sicurezza, pare non volersi occupare nessuno. «Non c’è una cabina di regia a livello nazionale – dice Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio – Il Tavolo interministeriale è stato convocato una sola volta nel 2012, quando c’era il ministro Riccardi. L’ Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, che dovrebbe fare da interfaccia tra Regioni e Governo, è al momento senza guida e a livello locale, quando c’è la volontà politica, mancano le competenze per proporre e realizzare interventi efficaci e lungimiranti, come accade a Torino, Roma e Napoli».

UN PROGETTO per lo 0,25% della popolazione italiana, visto che i rom presenti stabilmente in Italia sono circa 150 mila, di cui solo il 5% è veramente nomade. Una delle componenti più emarginate della nostra società.
Il Fondo europeo di solidarietà stanziato dalla Commissione, uno dei possibili canali di finanziamento per le politiche inclusive, ammonta a 10,4 miliardi per l’Italia. Per il Piemonte ci sono 872 milioni di euro.

Il Dipartimento delle Pari Opportunità del ministero dell’Interno ha sbloccato negli anni scorsi 15 milioni di euro congelati dal 2011 dopo che il Consiglio di Stato aveva bocciato il piano Emergenza rom. Piemonte, Veneto, Lazio, Lombardia e Campania sono così le uniche regioni ad aver ricevuto fondi specifici per attuare la Strategia Nazionale. Questi finanziamenti però sembrano insufficienti e mal gestiti, e gli obiettivi fissati, dice un rapporto della Commissione europea, sono ancora lontani dall’essere raggiunti. Stima che l’Italia dovrebbe assegnare almeno il 20% del Fondo sociale europeo alla lotta alla discriminazione a fronte del 8,7% (602 milioni di euro) stanziato negli anni passati.

A inizio giugno una delegazione di Amnesty international visiterà i campi di Milano e Torino, Catrinel Motoc ne farà parte: «Siamo molto preoccupati per come l’Italia stia disattendendo la Strategia Nazionale continuando a sgomberare e costruire campi. Chiederemo alla Commissione europea che apra una procedura d’infrazione contro l’Italia per la discriminazione abitativa che viene attuata sistematicamente contro i rom. Se fosse avviata sarebbe la prima di questo genere, anche se non è facile perché alcuni commissari sono poco disponibili a infliggere sanzioni ad un Paese importante come l’Italia».

«L’inclusione non solo è un dovere, ma anche un risparmio per le finanze pubbliche – afferma Stasolla, che con la sua associazione monitora da anni la vita dei rom – Abbiamo calcolato che far vivere le persone nei campi costa 7 volte di più che operare scelte per emancipare queste famiglie dall’indigenza. Nell’inclusione la spesa è nei primi due anni, poi le persone iniziano ad essere autonome e a pagare le tasse».
Senza guida politica nazionale, e con solo 8 tavoli regionali aperti, i Comuni devono fare da soli.

UNO DEI MERITI che il candidato sindaco Piero Fassino si attribuiva durante la campagna elettorale del 2016 era il superamento del campo rom di Lungo Stura Lazio, il più grande d’Europa con circa 1000 abitanti. Il progetto la Città possibile, che ha permesso tale traguardo, è stato duramente contestato da associazioni di cittadini e dal Movimento 5 Stelle che, una volta al governo della città, ha convocato i protagonisti di quell’iniziativa in una interrogazione consiliare per rispondere degli aspetti meno chiari. La Procura di Torino ha ancora due inchieste aperte sulle gare d’appalto e la gestione dei fondi. Quel piano era stato finanziato con circa 4 milioni di euro rimanenti dai 5 stanziati per l’Emergenza rom.

Fallito il progetto, una buona parte delle persone che risiedevano a Lungo Stura si sono spostate in via Germagnano e ora stanno affrontando l’ennesimo sgombero.

Per Anna è penoso ripensare al giorno dell’abbattimento: «Sono venuti vigili e polizia a controllare i documenti. Ho chiesto se volessero buttare giù la mia baracca. Un agente in borghese mi ha assicurato che non l’avrebbero fatto. Erano già le 8 e Giorgio rischiava di arrivare tardi a scuola. Quando sono tornata, un’ora dopo, ho trovato una mia amica che piangeva. Le avevano distrutto casa. Poi sono corsa dove doveva sempre esserci la mia e mi è caduto il cuore. Avevo tutti i vestiti di mio figlio, miei e di mio marito. Tutte le cose della nostra quotidianità».

IL COMITATO sui diritti umani delle Nazioni unite ha definito gli sgomberi forzati una «evidente violazione dei diritti umani», raccomandando di effettuarli con la presenza di un rappresentate istituzionale, predisponendo soluzioni abitative alternative, e garantendo la possibilità di ricorso legale. «Nessuna di queste garanzie è mai rispettata» afferma l’avvocato Gianluca Vitale, che assiste alcuni abitanti del campo, e spiega come «Nessuno dei rom residenti ha mai ricevuto alcun provvedimento formale di sgombero o di sequestro quindi si trovano nell’impossibilità di fare ricorso. L’unica persona che lo ha presentato attende una risposta da novembre e nel frattempo lo sgombero continua».

Tutta la zona di via Germagnano, dove sono presenti tre campi rom, due illegali e uno legale, è sotto sequestro. Il Pubblico ministero Andrea Padalino ha ipotizzato il reato di disastro ambientale dopo che l’Arpa ha rilevato nel terreno e nell’aria un grave inquinamento. Gli indagati sono cento rom. In fondo a via Germagnano c’è l’impianto di smaltimento comunale dell’Amiat, in funzione da trenta anni, dove vengono stoccate e messe in riserva varie tipologie di rifiuti e svolta un’attività di trattamento chimico fisico di rifiuti liquidi non pericolosi.

NON DEVE STUPIRE che anche l’area del campo legale sia sotto sequestro. «Quella zona – racconta Secondo Massano, presidente dell’associazione Opera Nomadi – è sempre stata usata come discarica a cielo aperto fin dagli anni Settanta». A inizio anni Novanta la Giunta Castellani la scelse per la costruzione di un campo rom, senza dare seguito alle richieste di analisi presentate dall’opposizione. «In quei terreni erano stati seppelliti illegalmente rifiuti tossici industriali. Era già una piccola terra dei fuochi quando vennero approvate le delibere» dice Marco Revelli, al tempo consigliere comunale. I carotaggi non vennero mai eseguiti, e nel 2004 l’amministrazione Chiamparino inaugurò le trentadue casette che ospitarono le famiglie bosniache sgomberate dal campo di strada dell’Arrivore.
In via Germagnano non si può vivere ma, a fronte dello sgombero in atto e con l’area sotto sequestro, non sono stati attivati i servizi sociali né è stato proposto un progetto alle famiglie. L’assessora al sociale con delega sul tema di stranieri e nomadi Monica Schellino non crede agli abbattimenti di strutture abitate: «Quello che ci riferiscono le forze dell’ordine è che vengono demolite quelle vuote da almeno 7 giorni, quindi non c’è necessità di approntare interventi di servizio sociale». Per quel che riguarda la realizzazione della Strategia Nazionale, a un anno dall’insediamento della Giunta Appendino, «Dobbiamo ancora creare la struttura amministrativa che ci lavori, dato che solo una settimana fa abbiamo riorganizzato gli uffici comunali. Poi sarà realizzato un progetto speciale in collaborazione con le associazioni esperte nel settore e coinvolgendo più assessorati». Non c’è la struttura e quindi neanche i fondi che «Dovremo reperire da ogni possibile fonte. La situazione lavorativa e abitativa è gravissima, se non si riusciranno a trovare i soldi per creare un percorso efficace d’integrazione non possiamo escludere nessuna ipotesi per la futura sistemazione delle famiglie».

ANCHE LA RIPROPOSIZIONE dei campi, come avviene a Moncalieri, piccolo comune attaccato a Torino. Dopo l’esondazione del Po di novembre scorso, che ha inghiottito il terreno dove vivevano, 26 rom, la metà dei quali minori, hanno passato l’inverno in un albergo, già stipato con 170 migranti. A fine maggio sono arrivati gli otto moduli abitativi che costituiranno un insediamento provvisorio su un terreno di proprietà dell’Iren, la società che gestisce la rete elettrica. Quello spazio, situato alle spalle della centrale termo-elettrica, è da anni una discarica a cielo aperto. «Per la pulizia, l’allacciamento di acqua e luce e i moduli abitativi abbiamo speso 100mila euro di fondi comunali – dice il sindaco Paolo Montagna – perché a livello nazionale il Ministero dell’Interno sembra non occuparsi di questo tema». Il comodato d’uso gratuito con Iren scadrà tra 12 mesi. In questo periodo l’amministrazione cercherà nuove soluzioni, quella più probabile «È la creazione di un’area di sosta autorizzata con moduli abitativi. Stabiliremo un decalogo di comportamento per i residenti, chi lo violerà verrà allontanato» dice Montagna.

«Costruire insediamenti monoetnici dove isolare i rom – afferma Stasolla – è in contrasto con la Strategia Nazionale, perché perpetua quella segregazione razziale generatrice dei problemi che si vogliono risolvere. Inoltre non è sostenibile a livello economico. Dal 2012 al 2016 sono stati spesi quasi 32 milioni di euro per creare campi da nord a sud d’Italia, sistemandoci dentro 4800 persone. Quei soldi potevano servire per l’inclusione abitativa e lavorativa».

LA COMMISSIONE UE ritiene che l’emancipazione dal disagio socio-economico passi per l’istruzione e che occorra incoraggiare la frequenza scolastica. Nei campi di tutta Italia vivono circa 80 mila minori e pochi riescono a portare a termine gli studi.

Sara ha 15 anni e vuole fare l’avvocato. Davanti al tavolo dove studia c’è una grande finestra. Da lì vede le baracche già abbattute e, poco sulla sinistra, il grande stemma dell’Amiat che campeggia sopra l’entrata dell’impianto.
«L’abbandono scolastico si spiega con il disagio economico e la necessità di guadagnarsi da vivere. Questo accade in ogni contesto sociale. I continui sgomberi, che costringono le famiglie a spostarsi lontano dalle scuole frequentate dai figli, hanno sicuramente un impatto enorme» dice Stasolla.

Sara ha una sorella, Diana, che sta facendo uno stage in un ristorante, loro fratello Paolo aspetta la telefonata dal datore di lavoro: «Fino a poco tempo fa lavoravo in una cioccolateria. Ho fatto corsi professionali per meccanico, pizzaiolo, programmatore. Spero che chiamino presto».

La loro casa è ancora in piedi, tutta in legno, luminosa, pulita e accogliente. La madre, ci porta il caffè. Le vetrate che coprono i due lati lunghi sembrano occhi che osservano con distacco il paesaggio degradato e ostile che li circonda. «Qui accanto avevamo un piccolo riparo per la legna. Ce lo hanno abbattuto pochi giorni fa. Non vedo l’ora di poter pagare un affitto per me e la mia famiglia. Qui non si può vivere».