«Guarda, se solo penso che sono qui e che io sto per vederli dal vivo mi vengono i brividi» mi aveva detto Librado, 45 anni, un colosso di uomo, meccanico di «almendrones» (le auto americane anni 50 che miracolosamente deambulano per Cuba) e guida turistica per arrotondare. Per confermare mostrava la pelle d’oca che effettivamente ricopriva il braccio. Forse solo in questa Cuba macchina del tempo, un concerto dei Rolling Stones poteva tornare ad essere un evento «epocale». Librado è del ’71 (l’anno di Sticky Fingers) e mi racconta di quando con gli amici si riunivano attorno al transistor ad onde medie per ascoltare le pietre rotolanti di nascosto, perchèsull’isola i loro dischi erano al bando. L’altroieri, nel venerdì santo che su richiesta di papa Francesco è stato decretato festivo per la prima volta in decenni, Librado e altri 600 mila Cubani si sono stipati nel campo della Ciudad Deportiva dell’Avana per assistere infine allo storico primo concerto dei mitici Rolling «Estones».

Certo i tempi sono cambiati da quando l’unica fonte per il rock degli Stones era l’etere pirata ma in cambio del concerto gratuito aggiunto in extremis al programma della tournée, Mick e compagni hanno ritrovato un po’ della trasgressione da tempo appannata dal peso della loro macchina ben oliata (c’è stata perfino una nota di disappunto della diocesi per la concessione del permesso alla band di Sympathy for the Devil proprio in questo venerdì di Pasqua riconquistato di fresco). Ma la sensazione preponderante nella settimana storica iniziata con la visita di Obama, è stata un entusiasmo e un aspettativa per il concerto che ha superato anche quella per l’arrivo del presidente americano.

Appena partito Obama all’Avana per giorni non si è parlato d’altro, sulle «guagua» (gli autobus sgangherati che fumano come ciminiere), sui taxi collettivi, nei paladar della città vecchia e nelle file di avventori dei negozi «el concierto» è stato argomento fisso. Nella casa particular dove ho alloggiato ho assistito a un lungo dibattito fra le addette delle pulizie sull’opportunità o meno di affrontare la folla (una, Rosa, ha deciso che un evento di tale importanza non si poteva mancare, Aliana alla fine ha preferito soprassedere).

La televisione nazionale ha dedicato un numero speciale del programma di approfondimento «mesa redonda» alla storia della band con la stessa dovizia con cui qualche giorno prima aveva ripercorso i punti salienti dei rapporti fra Cuba e Stati uniti). Gli unici forse in parte meno partecipi dell’attesa sono stati i ragazzi più giovani, quelli che nei punti internet della città, come i loro coetanei dei Caraibi e dei quartieri ispanici in Usa, semmai scaricano i successi «reggaeton» e i videoclip di Pitbull. La legge globale del turnover generazionale perchèmalgrado tutto il tempo non sta dalla parte nemmeno di chi ha scritto …Time is on my side

Detto questo il boato che ha accolto le prime note di Jumping Jack Flash dal palco della Ciudad Deportiva ha detto tutto su un emozione che è chiaramente andata oltre il normale tifo da «stadium rock». Dopo l’obbligatorio «Buenas Noches Habana» Mick Jagger ha apostrofato la folla in Spagnolo: «So che tempo fa è stato difficile trovare i nostri dischi qui. Eppure eccoci qua a suonare per voi nel vostro bel paese. Io credo che le cose stiamo finalmente cominciando a cambiare . No?» Il nuovo boato è sembrato quantomeno segnalare la speranza che sia così.

https://youtu.be/-gBoExr51wM

Un contingente di giovanissimi vistosamente tatuati e con mohicani artigianali mi confida «somos punks cubanos» esibendo le maglie dei Misfits e dei Ramones. Victor che ha vent’anni e l’intelligenza intensa dei ragazzi di qua ma anche l’innata diffidenza cubana verso le versioni ufficiali dice, «qui forse si sta rivoluzionando qualcosa. Vediamo che cosa». Aggiunge: «un concerto così lo aspetto da quando sono nato. Certo mio padre anche di più, purtroppo lui ora è in Florida e non l’ha potuto vedere». Accanto a loro in questo pubblico sterminato ed eterogeneo ci sono tre casalinghe sulla quarantina con a seguito figli di 13-14 anni («devono conoscere questa musica»). E poi migliaia di stranieri molti venuti a Cuba solo per questa sera.

«Sono stato a Woodstock» afferma Kevin, sessantacinquenne spilungone di New York, con la soddisfazione del reduce decorato. «Francamente non avrei pensato di ritrovarmi in un campo così simile». Se per i molti Americani che hanno fatto il viaggio tramite Canada o Messico predomina il brivido dell’isola proibita, per i tantissimi europei, canadesi e latinoamericani sbarcati in una Avana zeppa di turisti, c’è generale solidarietà e l’emozione di siglare la settimana storica cominciata con la visita di Obama. Le conversazioni poliglotte durante la lunga attesa nel pomeriggio sono state quasi tutte su quale dei due eventi avesse più rilevanza storica.

Intanto sul palco Jagger & co. si sono messi all’opera. Dopo Jumping Jack, ecco It’s Only Rock n’Roll, un altro inno che infiamma la platea sui cui sventolano più bandiere che alle nazioni unite. Mick è scatenato, un folletto settuagenario dall’energia apparentemente inesauribile: balla, salta, incita il pubblico che impazzisce quando brandisce una bandiera cubana roteandola mentre percorre di corsa il palco in lungo e in largo. Il set è un sussidiario di Stones che sembra fatto per riepilogare la discografia completa e supplire ai 50 anni di assenza da Cuba. L’excursus passa per il periodo d’oro con Paint it Black, poi Angie; tocca i classici assoluti con Honky Tonk Woman e si tuffa in Let it Bleed (Gimme Shelter, con uno straordiario assist vocale di Sacha Allen). La band ci prende gusto: Ron Wood imperversa sulla slide guitar e duetta con Keith Richards che passa in rassegna l’impressionate assortimento di chitarre con un sorriso stampato. Perfino l’impassibile, granitico, Charlie Watts se ne lascia scappare uno due. «Noche inolvidable» aveva detto Mick all’inizio del concerto e sembrerebbe che per loro almeno, non siano solo parole.

È il momento di Keith che imbraccia l’acustica e attacca You Got The Silver – i due brizzolati del Quebec accanto a me sembrano addirittura commossi, e non hanno tutti i torti. Intanto i tredicenni montati in spalla alle mamme non mollano i cellulari puntati sui nonni indiavolati che non mollano: Start Me Up, I Miss You, Brown Sugar, Sympathy For The Devil. Il pubblico è scatenato ma soprattutto felice; le forze d’ordine quasi non si vedono. Diffcile pensare ad una città migliore che questa Avana solare, umana per assemblare pacificamente mezzo milione di persone senza ombra di incidente. Sul palco sale il coro e attacca il gran finale di You Can’t Always Get What You Want.

Volendo ci si potrebbe leggere un riferimento al paese ospite e alla leggendaria arte dei cubani per ottenere ciò di cui ha bisogno. D’altra parte in questa settimana a Cuba tutto è diventato metafora, simbolo. E allora il forse neanche il bis è casuale – I Can’t Get No…..«Satisfaction!» risponde all’unisono il pubblico di questa Cuba divisa fra l’orgoglio della propria storia antagonista e i sacrifici patiti, la quasi carestia dei tempi più bui, gli anni 90 in cui il ritiro della Russia post sovietica è coinciso con la stretta crudele dell’embargo della legge Helms Burton voluta dalla diaspora assecondata dalla destra repubblicana (e da Bill Clinton). Con tutte le sfumature e le distinzioni generazionali del caso, è chiaro che qui, oggi, per questo popolo dall’incomparabile intelligenza, la simpatia e capacità, c’è ancora sete di un po’ più di «satisfaction» (e di viaggi, e di internet, e di qualche peso in più….).

Ieri gli Stones, come Obama, hanno lasciato questa città unica, in cui c’è un parque Lenin e a poca distanza il parque Lennon – con tanto di statua di John seduto su una panchina. Gli abitanti dell’Avana hanno vissuto una settimana storica, per usare un termine inflazionato ma accurato. Ora dovranno aspettare di vedere se diplomazia e rock’n’roll incideranno sulla loro vita e su quella del paese.