Da quando è uscito Album – nel 2015 in francese, nel centenario della nascita dell’autore, l’anno dopo da noi, per il Saggiatore, zibaldone di Inediti, lettere e altri scritti, a cura di Eric Marty – non c’è stagione che non porti il suo «nuovo» Barthes, più o meno esile, estravagante e disuguale, eppure mai del tutto deludente. Nelle pagine giornalistiche o nelle lettere private, negli interventi polemici o in quelli divulgativi, perfino nelle registrazioni di dialoghi orali e negli scritti palesemente d’occasione, brilla, di luce continua o a intermittenze, un’intelligenza sontuosa e imprevedibile, che risarcisce sempre, e ad abundantiam, di qualche zeppa, di qualche incoerenza, di qualche troppo compiaciuto virtuosismo sofistico.

Del resto, anche nei suoi testi più celebri, Roland Barthes non manca di accompagnare le sue più geniali intuizioni con qualche banalità ben scritta, con qualche boutade provocatoria: forse per una sorta di coazione snob, forse per istintiva inclinazione a boicottare ogni discorso autorevole, compreso il proprio. O forse addirittura di proposito: per il piacere ironico di regalare una gioia filistea ai critici più ottusi – non a caso, nell’ultimo quarto di secolo, è diventato uno dei bersagli polemici prediletti dei filosofi analitici: che non si stancano di denunciarne le minime contraddizioni, senza vedere mai l’essenziale.

Pubblicazioni recenti
Bene hanno fatto perciò Meltemi e Mimesis, nel 2017, a mandare in stampa, rispettivamente, gli scritti Sul teatro e l’ultimo studio di Barthes (su Stendhal), Non si riesce mai a parlare di ciò che si ama; nel 2019 Sossella a pubblicare Ascolto (co-autore Roland Havas, nota introduttiva di Stefano Jacoviello), e Marietti Sul racconto. Una conversazione inedita con Paolo Fabbri, con la postfazione di Gianfranco Marrone. E bene fa adesso anche L’Orma a portare in libreria, per le cure (approssimative) e nella traduzione (buona) di Filippo D’Angelo, Cos’è uno scandalo Testi su se stesso, l’arte, la scrittura e la società (pp. 224, € 20,00), anche se la promessa, esibita in copertina, di riesumare scritti inediti 1933-1980 è quantomeno inesatta: non ci sono inediti, nel volume; tutti i testi raccolti sono già stati pubblicati in francese: uno postumo, gli altri dall’autore stesso – vero è, semmai, che erano in larga parte inediti in italiano (non tutti, però; e manca la bibliografia che dovrebbe darne conto).

Preso in prestito da un breve articolo, datato 1959, del Barthes semiologo dei media e teorico dei «miti d’oggi», il titolo rimanda a una riflessione sull’affaire Lacaze, torbido caso giudiziario – celeberrimo al tempo, oggi dimenticato – in cui è coinvolta Domenica Walter, una delle protagoniste più ambigue e inquietanti della scena mondana, e del mercato dell’arte, nella Parigi di metà Novecento. I fatti sono dati per scontati; e il lettore italiano (in tutto il volume, le note si contano sulle dita di una mano), se vuole provare a capire qualcosa, deve passare svariate decine di minuti su Wikipedia.

Per un Barthes ancora marxista, la «funzione collettiva» dello scandalo è di «rappresentare costantemente l’indecifrabile»; e la conclusione del saggio, con una di quelle sintesi spiazzanti, che fanno economia di molti passaggi logici e costringono il lettore a spostarsi su un diverso e più complesso piano del discorso, è questa: «Ora sappiamo che cos’è uno scandalo: è per essenza ciò a cui non partecipiamo», mito che ci costringe «nell’ombra della galleria o della platea».

Il saggio è acuto, e anche divertente, se solo si conosce un po’ la vicenda da cui prende spunto; ma non è rappresentativo del volume cui dà il titolo: dove precisamente gli anni Cinquanta e Sessanta, quelli delle Mythologies e della semiologia, sono assai poco rappresentati.

Su Gide e su Camus
La scelta di D’Angelo cade sul primissimo e sull’ultimo Barthes, accomunati da «libertà maggiore», o addirittura dall’abbandono a «inclinazioni forse più autentiche». E davvero pare profetico l’incipit degli Appunti su André Gide e il suo «Diario»: per giustificarne il disordine frammentario, l’unico in grado di avvicinare quell’«essere simultaneo» che è Gide, Barthes sostiene (già nel 1942!) «che l’incoerenza sia preferibile a un ordine deformante».

Poi difende, nel Journal, «un certo vezzo del luogo comune, dell’uniforme», che sarebbe un’impronta di classicità – «avere il coraggio di dire bene ciò che è evidente» è «la regola classica», solo in apparenza incompatibile con quella che impone la «preterizione del superfluo». Così, paradossalmente (lo ribadisce il saggio successivo, altrettanto bello: Il piacere dei classici, 1944), i moralistes del Seicento francese, come poi Gide, «essendo concisi, sono anche oscuri»: «Non bisogna confondere la chiarezza e la completezza». Si potrebbe chiosare che «in questa distinzione» non risiede soltanto «la forza classica», ma anche il paradosso vitale di Barthes critico e scrittore, che influenzerà in modo decisivo le avanguardie del secondo Novecento, senza mai deflettere da una nostalgica ammirazione per il maestri del Grand Siècle.

Nel manipolo di saggi giovanili, quello su Camus rinviene, di nuovo per amore del paradosso, un nucleo di «lirismo» nello Straniero, mentre quello del 1951 dedicato a Michelet, sinopia della monografia del ’54 (Michelet par lui-même), parla con la consueta antiveggenza di «post-Storia», e soprattutto inaugura una riflessione sulla fisicità del corpo nell’atto della lettura («qualcosa che trascina il lettore sull’orlo di una reazione fisica, qualcosa che lo fa partecipe di uno stato della natura carnale»), che sarà poi centrale nei grandi saggi della piena maturità.

Oltre al testo eponimo, a far da transizione, al centro del volume, fra il primo e l’ultimo Barthes, due stroncature; una ingenerosa: vittima è Matisse, da poco scomparso, la cui pittura «morbida allo sguardo, igienica e gioiosa», tutta «svolazzi decorativi», incarnerebbe un «ethos più soleggiato che solare»; l’altra facile: bersaglio essendo il «flusso di trite sentenziosità» di cui il Generale de Gaulle lardella le sue Memorie. Più ampio il ventaglio degli argomenti affrontati nei testi, spesso d’occasione, dei primi anni Settanta: dalle locandine inglesi di fine Ottocento, al fumetto, all’atto della scrittura inteso come una specie di «lavoro manuale», e come forma di espressione e di piacere artistico. Ma proprio dove meno ce l’aspetteremmo, nell’introduzione al libro di un disegnatore, Raymond Savignac, troviamo una definizione come questa, al tempo stesso densissima e limpida: «artista è chi non può venire a capo della contraddizione, poiché l’arte, per la sua stessa struttura, non permette mai di enunciare definitivamente una scelta».

Scritti 1978-1979
Invece, le cronache affidate al «Nouvel Observateur» nell’inverno’78-’79, pezzi di norma brevissimi, e di argomento eteroclito, per un verso riannodano il filo dell’interesse per i «miti d’oggi», per un altro sono dichiaratamente «come le prove di un romanzo», inseguono il miraggio creativo degli ultimi mesi: sempre, però, con un’ombra di stanchezza, d’incertezza, di sfiducia. E così i referti di quella che si può definire un’antropologia spicciola del quotidiano non sempre esprimono «la forza del linguaggio che pluralizza il senso delle cose e, alla fine, lo sospende»; e non sempre si sottraggono al magnetismo della trivialità, allo stereotipo dettato da un misoneismo generazionale: le ciliegie australiane a Natale sottraggono la nostra esistenza al ciclo naturale delle stagioni e ci guastano il piacere delle primizie primaverili – lo diceva sempre anche la mia nonna.