È possibile pensare l’affettività, la passione in termini di neutralità? Può darsi qualcosa di intenso, anzi di incandescente, in certe specifiche forme di parola e di condotta caratterizzate dal sottrarsi alle contrapposizioni? L’aspetto forse più sorprendente delle tredici lezioni universitarie tenute nel 1978 da Roland Barthes e tradotte per la prima volta in italiano con il titolo Il Neutro Corso al Collège de France, (introduzione, traduzione e cura di Augusto Ponzio, Mimesis, pp. 364 , € 24,00), sta nel loro articolare interrogativi che tendono a trasformare la nostra visione tradizionale dell’emotività e delle passioni, dando nuova sostanza a una nozione di ardua definizione e di difficile manipolabilità com’è quella di neutro, di cui si può dire che percorra, con diverse denominazioni e cadenze (l’«epoché», la Gelassenheit, l’«assenza d’opera», il «fuori», per fare solo qualche esempio) parte rilevante del pensiero secondo-novecentesco di area continentale.
Come sovente nei suoi lavori degli anni Settanta, qui Barthes costruisce un equilibrio originale tra intelligenza critica e creatività, che si avvale della capacità di cogliere le cose così come sono e al contempo di reinventarle con una effervescenza stupefacente.

Da vero e proprio «musicista delle idee», come ne scrisse Starobinski, e da eccezionale professore qual era, nei suoi corsi Barthes mette questa capacità al servizio di quanti ne seguirono l’insegnamento – e furono tanti nel 1978, a pochi mesi di distanza dal successo planetario di quel singolare montaggio di commento letterario, confessione, enciclopedia del desiderio che è Frammenti di un discorso amoroso.

Un carattere aporetico
Più che una serie di lezioni, si trattò per gli ascoltatori di una vera e propria esperienza, una profonda emozione culturale e una sollecitazione alla riconsiderazione di sé e del mondo. La ripercorriamo oggi leggendo pagine caratterizzate da una scrittura formulaica, ritmata, sempre trasparente, che intrecciano filosofia, politica, linguistica, letteratura, teologia, scienze, convocandole intorno alla polimorfa energia del «neutro», inteso come campo complessivo di ciò che si sottrae alle opposizioni pertinenti, forza che si manifesta sfuggendo attivamente alla struttura paradigmatica del senso, eludendo cioè lo schema costituito da due termini virtuali di cui, per produrre significati e parlare, se ne attualizza uno: sì versus no, bianco versus nero… Ciò che Barthes interroga, facendo leva su testi di autori come Blanchot e Benjamin, Baudelaire e Gide, ma anche Jacob Boehme (Koyré), i filosofi scettici (nella lettura che ne diede Kojève) e quelli orientali (a cominciare da Lao Tzu) è il piano esperienziale delle attività eteroclite, degli affetti non paradigmatizzabili, degli stati o dei comportamenti irregolari, in grado di produrre una sospensione dei dati conflittuali che caratterizzano inesorabilmente il «discorso» e la sua struttura attributiva. Stati e comportamenti che dunque trascendono il «binarismo implacabile» grazie al quale solo lo scontro, la contesa (la scelta di un termine per rifiutare l’altro) sarebbero generatori di senso.

È evidente il carattere aporetico – ripetutamente sottolineato e risolutamente valorizzato da Barthes – del piano problematico in questione. Con il pensiero-limite del «neutro» si tenta di riconoscere il mondo non solo come un tessuto di sfumature, di variazioni, di gradi d’intensità, di differenze, ma come una vera e propria trama di aporie che, lungi dal trovarsi sciolte da colpi di mano dogmatici e logici, richiedono di essere recepite nella loro articolazione specifica, in quanto elemento eminente della vita stessa – vita di cui allora diviene possibile attivare pienamente la percezione, assumendo come guida la sua efflorescenza fenomenica.

Altrimenti detto nénéismo
Barthes sa benissimo che nella cultura occidentale il neutro ha cattiva fama e opportunamente cita Blanchot, il quale nel 1969 notava che tutta la storia della filosofia potrebbe essere intesa come uno sforzo per «addomesticare il ‘neutro’, sostituendovi la legge dell’impersonale e il regno dell’universale».
Così, il corso di Barthes avverte che generalmente le immagini del neutro si trovano declinate in chiave dispregiativa, legate all’area semantica dell’indecisione, dell’insensibilità, della medietà ambivalente, dell’assenza di attrattività o, peggio, della viltà, del fallimento, dell’impotenza. Nella doxa – in quell’opinione che sembra andare da sé, la cui tipicità non è nemmeno più percepita, e in quanto discorso preteso naturale è, annota Barthes, il «collante stesso del potere» – le incarnazioni o le figure del neutro sono regolarmente ricondotte alla versione farsesca fissata dalla formula «né questo, né quello»: il bilanciamento preteso imparziale, il colpo a destra che obbliga a un colpo a sinistra. Ma ciò che Barthes indica con lo spiritoso neologismo di «nénéismo» è secondo lui solo la copia piatta, l’ombra banalizzata del vero neutro, che ne è invece del tutto distante: non implica infatti una ipocrita identità «terza», o una retorica dell’equilibrio, o una pretesa di «giusto mezzo».

Il neutro autentico è piuttosto una istanza di non-semplificazione, schierata contro ogni arroganza discorsiva e pronta ad ammettere alternanze imprevedibili e necessarie, insopportabili alla doxa. Ancor meglio: il neutro ha a che fare con tutte quelle oscillazioni minime che, radicate nel campo dell’affettività e in rapporto instabile con due punti di riferimento contrari, possono accompagnare un uso mobile, intelligente, non appropriativo della forza, consentendo una pratica sottile della buona distanza, una regolazione e a una valorizzazione degli intervalli, capaci di rispondere all’interpellazione fondamentale che giunge dall’alterità indomata delle cose e degli altri.

«L’etica esiste sempre, dappertutto», scrive Barthes in consonanza con quanto in quegli stessi anni andava elaborando, su altro piano, Foucault. La rassegna barthesiana delle figure del neutro (le forme plurali della «delicatezza»; la semplicità non conformista del «voler bene»; l’interruzione asistematica dei modi dell’«arroganza discorsiva»; il taoista Wu-wei; le dialettiche di femminile e maschile immanenti a ogni persona; certe eteroclite configurazioni del silenzio; persino la stanchezza, in quanto stimolatrice del nuovo, e così via) individua prassi che, non orientate al conflitto, portano con sé una sorta di guida all’esistere «secondo la sfumatura», in cui il «voler-afferrare» si trova trasceso da un «voler-vivere» che consente l’elusione dei double binds, i perfidi doppi legami di cui parlava Gregory Bateson: una disattivazione di tutte quelle situazioni in cui il soggetto, qualsiasi cosa faccia – qualunque sia la sua scelta tra due possibilità – non può salvarsi.

Quel che è irriducibile
Di fronte alla scena del «croce vinco io, testa perdi tu» – la scena in cui discorsi, saperi, tecniche lavorano a una trasformazione degli uomini in meri strumenti di un ordine culturale-politico-economico che detta loro finanche cosa desiderare – Barthes, non tanto si oppone (è probabile che considerasse tempo perso una simile resistenza), quanto piuttosto mira a definire il più precisamente possibile che cosa, nell’esistenza di ciascuno di noi, è assolutamente, radicalmente irriducibile a questo mutamento disastroso, sforzandosi di renderne sensibile la consistenza e percepibile l’esperienza quotidiana.