Nuovo disco per la musicista maliana Rokia Traoré che ha pubblicato lo scorso febbraio Né So [Ponderosa Music & Art], un lavoro composto da undici brani di raffinata bellezza dove non è soltanto la partitura musicale a brillare, ma anche le liriche scritte dalla cantante e chitarrista. Ancor più che in passato, la Traoré mette nelle sue canzoni contenuti politicamente e socialmente espliciti.

Un album di spessore, dove sia la produzione di John Parish che le partecipazioni di nomi di rilievo come John Paul Jones, Devendra Banhart e Toni Morrison, risultano perfettamente coese con l’intero progetto discografico. La stessa Traoré, che abbiamo incontrata in occasione della sua unica data italiana all’Auditorium di Roma, si mostra soddisfatta: «Ogni nuovo album è diverso dai precedenti. Lo è anche questo perché sto continuando il progetto artistico che ho intrapreso tempo fa, la mia ’liberazione blues’ che prevede di non suonare soltanto la musica tradizionale mandengue, ma anche quella di tutto il West Africa. Che è ricca di sonorità soffici e morbide, al contempo ritmiche e piene di groove. Per realizzare questo nella band ho coinvolto musicisti provenienti da Mali, Costa d’Avorio e Burkina Faso, oltre all’italiano Stefano Pilia. In questo modo posso realizzare quello che voglio. Ho voluto dare al progetto sfumature musicali diverse rispetto agli altri miei lavori».

Rokia Traoré parla lentamente e con voce ferma e una grazia innata, ma appare molto determinata. Ed è forse proprio questa sicurezza nel descrivere le scelte artistiche, che meglio traccia la maturità raggiunta dalla musicista maliana.

Il titolo del lavoro è emblematico: Né So in bambara significa casa ed è il luogo reale e drammaticamente assente nella omonima canzone, dove la cantante racconta il dramma dei rifugiati in fuga dall’Africa verso la fortezza Europa. I versi di quel brano, pensato nel 2014, appaiono tanto contemporanei nelle argomentazioni quanto desueti nelle proporzioni numeriche recitate, come afferma la Traoré: «La situazione di oggi è peggiore di allora, quando scrissi Né So. È triste parlare dei terribili crimini di Parigi e Bamako. Raccontare di questi due attentati è la stessa cosa, ciò che conta è il numero dei morti. Dimostra anche che questi problemi non sono circoscritti all’Africa, che rimane comunque molto fragile. Viviamo in un periodo molto difficile per l’umanità e per molte persone è anche una crisi di identità: è difficile comprendere quanto grande sia diventata l’Europa, molti rifugiati e migranti si sono spostati in questa area diventandone cittadini…ma non si sentono parte integrante. Si sentono emarginati e questo genera molta frustrazione. Sia a livello politico che sociale bisogna trovare soluzioni. Che siano comprensive del fatto che il mondo in cui ci troviamo è probabilmente qualcosa di troppo grande da amministrare senza valutare e valorizzare le molteplicità culturali, che non sono una minaccia, bensì una risorsa».

Concetti sintezzati nel disco in modo mirabile dalla cantante, sia nei brani scritti di suo pugno che nell’ultima canzone. Una versione struggente di Strange Fruit firmata da Lewis Allen e Billie Holiday. Un pezzo di storia della musica, il cui confronto con l’originale insuperabile di Lady Day e l’immaginario che è capace di evocare, mette a dura prova chiunque provi a cimentarsi nell’impresa.

Rokia ci è riuscita scavando nel testo, drammatico e sublime allo stesso tempo: «La discriminazione razziale e di classe, è sempre più forte – sottolinea-. L’immagine dell’uomo di colore è sempre pessima e negativa. I preconcetti in tal senso non cambiano: inferiorità, povertà. Persiste una impossibilità di avere le stesse opportunità. Il razzismo sociale è presente. Ho scelto Strange Fruit perché parla di questo: l’intento e l’interesse artistico di questa canzone è molto profondo».