Giovedì, poco dopo l’annuncio del ritiro Usa dalla Siria, in 100mila si sono presentati alla base della coalizione anti-Isis a guida statunitense a Kobane.

Curdi, arabi, armeni, turkmeni sono arrivati da Manbij, Raqqa, Ayn Isa con un identico messaggio, racchiuso nella lettera consegnata dal cantone di Kobane ai militari Usa: «Non accettiamo sporchi negoziati su di noi. Non accettiamo l’invasione dello Stato turco».

A Rojava, il Kurdistan siriano, sanno bene che significa il ritiro dei marines, consapevolezza rafforzata dalle indiscrezioni sul contenuto della telefonata tra i presidenti Trump ed Erdogan di una settimana fa: la Casa bianca avrebbe chiesto ad Ankara se fosse in grado di sradicare l’Isis dal nord della Siria, Ankara ha risposto che lo ha già fatto.

Ma, raccontano attentati e infiltrazioni, l’Isis c’è ancora. E un’operazione turca costringerà a rivedere le priorità. Le Forze democratiche siriane (Sdf) stanno già pensando a un trasferimento dei combattenti verso l’Eufrate e Manbij per fermare i turchi e i loro pretoriani, i miliziani di opposizione islamista, lasciando così scoperto il fianco a est (i fronti a Raqqa e Deir Ezzor) al confine con l’Iraq, dove migliaia di islamisti sono operativi. Lo ha ricordato ieri l’attacco contro la zona di Hajin, da poco liberata, e quello di giovedì a Raqqa.

I curdi non hanno altri amici che le montagne, il tradimento era atteso: «Non erano qui per proteggerci – ha detto ieri all’agenzia curda Anf il co-presidente delle relazioni diplomatiche del Pyd, Salih Muslim – I nostri interessi coincidevano e abbiamo agito insieme, ma non abbiamo mai contato su di loro». Ora la regione autonoma cerca impegno da altri attori: dall’Onu, a cui chiede di inviare forze di pace, e dalla Francia, presente con qualche centinaio di truppe, perché dichiari una no-fly zone per prevenire l’assalto turco.

Che per ora pare rinviato: ieri Erdogan ha detto che lo posporrà finché non vedrà «i risultati sul terreno della decisione Usa». Il rinvio è figlio dell’incertezza intorno all’annuncio trumpiano. Prima si è dimesso il capo del Pentagono, Mattis, contrario al ritiro e poi sono intervenute Francia e Germania a ricordare che l’Isis c’è ancora. Dall’Eliseo ieri è giunta la prima promessa di sostegno alle Sdf.

Da parte loro le unità di difesa curde, Ypg e Ypj, e le Sdf – oltre a sottolineare che sarà impossibile combattere il «califfo» se dall’altro lato a colpire c’è il secondo esercito della Nato – fanno notare che una tale operazione impedirà la già difficile gestione dei 3mila prigionieri dell’Isis, catturati in questi anni.

Un fardello enorme su cui Rojava ha spesso richiamato l’Occidente, trattandosi per lo più di foreign fighters: riprendeteveli o aiutateci a gestirli. Ma in un contesto di guerra le prigioni sono le prime a collassare, con la conseguente fuga di 3.200 islamisti.

Molto probabile che i curdi si rivolgano a Mosca e Damasco, con cui è in corso un dialogo sul futuro dell’autonomia di Rojava, a cui il governo centrale ha prestato l’orecchio: ripiegare su Assad per evitare una pulizia etnica come quella sperimentata dal cantone di Afrin dopo l’invasione turca di marzo, 300mila sfollati sostituiti da miliziani sunniti e familiari.

Per Ankara Afrin è l’enclave in territorio siriano necessaria a ridare fiato alle opposizioni islamiste e a mantenere un corridoio di approvigionamento al bubbone jihadista di Idlib. A rischio c’è un progetto unico, il confederalismo democratico, che ha trasformato il volto della Siria del Nord e proposto un modello all’intero Medio Oriente, anti-settario, anti-patriarcale e di democrazia diretta.