Una foto che circola da qualche giorno, nella quale un soldatodello Stato islamico, sorridendo, tiene per i capelli la testa mozzata di una combattente curda, aiuta forse a capire perché una delle donne delle Ypj dichiari in un’intervista che l’Isis è nemico dell’umanità. Per lei e le sue compagne Kobane è il confine globale tra la civiltà e la barbarie. Eppure queste parole sono spiazzanti perché, soprattutto dopo l’11/9 (l’attacco alla Torri gemelle a New York, n.d.r.), sono servite a giustificare una guerra combattuta senza frontiere in nome della «duratura libertà» dell’Occidente minacciato dal terrorismo globale. Ma è spiazzante anche il cambiamento di prospettiva che impongono il contesto e la posizione di chi parla: se andiamo dalle stanze blindate del Pentagono alla Rojava non abbiamo più davanti un manipolo di uomini che pretende di guidare una guerra giusta per la libertà – anche quella delle donne oppresse dall’integralismo talebano –, ma donne protette solo dalle proprie armi che combattono per liberare se stesse. Questo però non basta a quietare lo spiazzamento. È sufficiente che sia una donna a pronunciare quelle parole per rovesciare un discorso che ha veicolato gerarchie e oppressione? Il fatto che siano le donne a imbracciare le armi è sufficiente a farci rinunciare al pacifismo che abbiamo sostenuto di fronte all’invasione statunitense dell’Afghanistan?

Schiave di un ordine patrarcale

Sedicimila donne che combattono contraddicono praticamente ogni legame sostanziale tra il sesso, la guerra o la pace. Ogni giorno nuove combattenti si uniscono alle Ypj. Un detonatore per questi reclutamenti è stata la presa del Sinjar da parte dell’Isis ad agosto. Migliaia di donne curde yezidi sono state uccise, stuprate, ridotte in schiavitù e vendute a combattenti ed emiri per soddisfare le loro esigenze sessuali e la necessità di produrre e allevare martiri jihadisti. Nell’odio sfrenato dell’Isis per le donne c’è la volontà di ridurle a strumenti di riproduzione di un ordine violentemente patriarcale secondo una logica che, se pure estremizzata e connotata confessionalmente, ha un carattere globale.
A Kobane si sta perciò combattendo una «guerra di posizione» e questo non ha a che fare con le strategie militari. In gioco c’è anche il posto che le donne occupano nel mondo e per questo le guerriere delle Ypj sono orgogliose di avere preso le armi. Una combattente racconta: «la nostra società guardava le donne solo come buone casalinghe. Ora siamo cambiate: viviamo, impariamo e combattiamo. Siamo soldati ora, viviamo pienamente la nostra diversità». Le donne combattenti di Kobane sono diverse da ciò che sono state. Le armi hanno segnato un cambiamento decisivo rispetto alla tradizione. Questo cambiamento è dovuto anche alla spinta politica del Pkk ma, al di là dell’identificazione con la causa curda, c’è qualcosa di più. Una di loro racconta che, secondo alcuni, le combattenti «sono tagliate fuori dalla vita sociale» perché hanno preso le armi. In gioco è anche una battaglia sul fronte interno per affermare il loro diritto a conquistarsi la libertà.
È stata la partecipazione alla guerra a farle sentire uguali. Contro l’incredulità dei loro padri e dei loro fratelli che dubitavano della loro forza, ben oltre il formale riconoscimento della loro uguaglianza espresso nella «Carta del contratto sociale» della Rojava, queste donne hanno dimostrato di avere non solo la forza, ma anche il coraggio. A loro non piace la guerra e lo ripetono nelle loro interviste. Hanno combattuto prima di tutto contro una parte di sé, contro la propria «passività», come la chiama qualcuna, per andare sul fronte di Kobane. Convinte che la guerra non sia propria delle donne, alcune potrebbero negare che queste donne siano davvero tali. È già accaduto nel caso di Lynndie, la torturatrice di Abu Grahib. Tra lei e le combattenti della Rojava c’è un abisso, ma in entrambi i casi è chiaro che vi sono molti modi di stare al mondo come donne, al di là del destino tracciato dall’ordine simbolico del padre o da quello della madre. Convinte che l’uguaglianza sia l’espressione politically correct del perpetuarsi del potere sessuale sulle donne, alcune potrebbero vedere in queste guerriere la riproduzione di un «modello maschile» di autonomia. Ma nell’uguaglianza femminile c’è qualcosa di più. Sono il volto e il corpo di queste combattenti a terrorizzare i soldati dello Stato islamico, convinti che, se saranno uccisi da una donna, non andranno in paradiso.

Una vulnerabilità universale

Le donne delle Ypj pongono domande scomode al di qua di Kobane e forse questo spiega il silenzio di molte donne e di militanti e teoriche femministe di fronte a questa guerra. Forse è più facile schierarsi quando le donne sono vittime, quando il loro corpo è un campo di battaglia, quando si fanno ambasciatrici di pace, quando sono uno fra i molti generi che subiscono la discriminazione fondamentalistica, quando sono la metafora di una vulnerabilità che unisce il genere umano e rivela le pretese di dominio del soggetto «Maschio, Bianco e Occidentale», quando sono esotici soggetti post-coloniali. Forse è più difficile schierarsi quando significa ammettere che le stesse che danno la vita possono toglierla a colpi di mortaio, che le stesse che incarnano la pace possono armarsi, che le stesse che curano possono colpire, che le stesse che dovrebbero contestare il potere lottano per prendere potere.Forse non è la storia di queste donne a essere inadeguata rispetto alle alte vette della libertà femminile. Forse sono i discorsi che donne e femministe hanno a disposizione che non sono all’altezza della storia delle combattenti di Kobane. Mentre ridono e sparano, mentre riposano e danzano, queste donne indicano il punto in cui quei discorsi rischiano di sbriciolarsi sul fronte delle contraddizioni.Per questo, piuttosto che trincerarsi nel silenzio, vale la pena ascoltare e provare a capire la posta in gioco globale della guerra delle donne di Kobane.

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