Nelle vecchie e ormai pressoché defunte facoltà di Lettere vigeva, in vista dell’esame di Filologia, la preparazione di una esercitazione scritta per impratichire lo studente in erba con gli strumenti del mestiere. Come materia d’esercitazione il docente, se era di fretta, forniva un testo canonico in antico volgare, se era ben disposto, dopo la domanda di rito («da dove viene lei?»), spediva il candidato nella biblioteca del proprio paese di provenienza a scavare tra documenti, manoscritti e antiche stampe per cavar fuori qualcosa di utile o anche vagamente interessante. Il giovinotto, quaderno di appunti alla mano, si metteva d’impegno e sotto lo sguardo dell’occhiuto bibliotecario di turno, provvedeva alla bisogna affrontando il nuovo compito come se si fosse trattato di dar di piglio all’edizione della Gerusalemme Liberata. Perché il compito consisteva, solitamente, proprio in questo: nella trascrizione, con criteri da stabilirsi, di un testo fin dove possibile inedito (in tasca, beninteso, il paterno ammonimento sul «dubbio gusto dell’inedito» dell’amato Dionisotti), cui teneva dietro una sommaria illustrazione e una altrettanto sommaria analisi linguistica da redigersi in elementari noticine a piè di pagina.
E qui cominciavano i problemi, perché il cimento con la grammatica storica era, a quell’altezza del percorso accademico, una assoluta novità. Soccorreva allora la frase magica: «si affidi al Rohlfs!». Sì, perché quanto all’analisi linguistica di un testo la Grammatica storica del geniale berlinese Gerhard Rohlfs costituiva se non l’unica, certo la principale porta d’ingresso per chi non osasse ricorrere alle più arcigne Grammatiche o al cosiddetto REW (Romanisches etymologisches Wörterbuch) del gigante Wilhelm Meyer-Lübke. Del Rohlfs infatti era uscita, negli anni sessanta, un’ottima edizione italiana Einaudi in tre volumi, poi resa più accessibile nella collana della «PBE». E, cosa ancora più gradita al giovane neofita, l’edizione italiana (differenziandosi parzialmente in questo dalla prima edizione svizzera del Francke) offriva in coda a ciascuno dei tre volumi, dei mirabili indici onomastici: una sorta di panacea che consentiva, se si era fortunati, di acciuffare al volo la provvidenziale scheda linguistica del lemma che faceva capolino nel testo da editare e risultava, a tutta prima, inaudito.
Col tempo, dall’uso indiscriminato degli indici, ci si accostava alla struttura vera e propria dell’opera avviandosi alla esplorazione sistematica della fonomorfologia e imparando a classificare con maggiore cognizione di causa i fenomeni linguistici oggetto della ricerca (e così si imparava che in Toscana l’inopinato lalde del Morgante di Pulci nasceva come ipercorrettismo reattivo colto all’estendersi di tendenze periferiche del tipo altroautro, per cui anche laude era raddrizzato in lalde, e via dicendo).
Non so se guidata da questo spirito, ma certo da accogliere favorevolmente, esce ora la nuova edizione della Grammatica portata a termine dal Mulino con l’Accademia della Crusca per rimettere in circolo un’opera tuttora fondamentale e raggiungibile ormai solo attraverso i remainders: Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti I. Fonetica, II. Morfologia, III. Sintassi e formazione delle parole (il Mulino «Collezione di Testi e di Studi», prezzo complessivo € 110,00). La nuova edizione si giova, per ciascun volume, dell’introduzione di esperti del settore (Claudio Marazzini e Giovanni Ruffino per il primo, Martin Maiden per il secondo, Paolo D’Achille e Lorenzo Tomasin, per il terzo) e viene arricchita da un’intervista ai traduttori dell’edizione einaudiana (Temistocle Franceschi e Maria Fancelli) e da una breve biografia dell’autore (la firma Annalisa Nesi).
Senza entrare troppo nel dettaglio, le introduzioni mettono bene in evidenza pregi e difetti di un’opera che, come si diceva, rappresentò per allora uno strumento di eccezionale rilievo. È noto che nell’edizione italiana Rohlfs apportò notevoli modifiche e ritoccò l’impianto complessivo, spostando al volume III la sessione sulla Formazione delle parole (che meglio sarebbe stata, lo sottolinea bene D’Achille, nel II, in coda alla Morfologia) e creando una nuova disposizione che perse però di coerenza e sistematicità. Analogamente alcune parti relegate nella Sintassi meglio avrebbero figurato nella Morfologia. Ma questo difetto di coerenza e sistematicità era, direi, quasi connaturato all’approccio diretto con il fatto linguistico adottato dallo studioso, più volte ritratto a dorso di mulo lungo gli impervi sentieri della Calabria per esperire, quadernetto alla mano, i propri carotaggi dialettali. Proprio nel rapporto tra lingua e dialetto stava, d’altro canto, uno degli elementi di maggiore novità strutturale rispetto alle opere precedenti: la centralità del toscano messa a paragone con i paralleli sviluppi dell’Italia centrale, settentrionale e meridionale. Ma la centralità del toscano appariva controbilanciata dalla esigua presenza di segmenti estratti dall’italiano letterario a tutto favore della componente periferica, che costituiva il punto di forza dell’esperienza di studioso del Rohlfs.
Come si diceva, nel passaggio a volte tormentato – lo testimonia il carteggio tra il vero motore dell’iniziativa, Gianfranco Contini, e l’editore Einaudi – dalla versione originaria alla nuova edizione italiana non poche furono le integrazioni e gli interventi dell’autore che dovette, per quanto possibile, tenere conto delle novità e degli aggiornamenti apparsi tra gli anni cinquanta e sessanta nel campo della dialettologia e della linguistica storica (vi accenna, ancora, D’Achille). Non tutto venne colto dal Rohlfs, o almeno non tutto venne colto nel suo effettivo rilievo. E basti l’esempio di un volume capitale come Il verbo nell’italiano antico di Franca Brambilla Ageno, apparso nel 1956 presso Ricciardi e laconicamente menzionato in apertura del capitolo sull’Uso dei tempi indicativi. Un po’ poco per la qualità e la quantità delle osservazioni che, anche a livello sintattico, quel volume avrebbe messo in campo. Discorso analogo si potrebbe fare per i contributi di Ageno dedicati all’uso del gerundio o del verbo ‘fare’ in funzione fraseologica che giocarono a editori passati (per Boccaccio) e recenti (per Sacchetti) brutti scherzi.
Si dirà, ed è vero, che la lacuna sembra colpire soprattutto il versante della lingua letteraria e pare in qualche misura riconducibile alla matrice dello studioso e alla naturale diffidenza o a un certo disinteresse per gli aspetti latamente filologici che sempre tornano in causa quando con la lingua letteraria ci si deve confrontare. Refrattarietà ideologicamente non troppo distante da quella che Contini ebbe a rilevare, a proposito di un grandissimo come Carlo Salvioni, nel noto e severo giudizio sull’edizione dell’Egloga rusticana di Paolo da Castello. È, credo, un portato fondamentale della lezione di Contini l’uso sapiente e sempre bilanciato delle due armi taglienti della filologia e della storia della lingua per valutare questioni di forma e questioni di sostanza. Resta vero però, ben oltre questi rilievi marginali, quanto ebbe recentemente ad affermare sulla Grammatica Michele Loporcaro: è un libro «che mantiene tutta la forza che può avere la grande opera di sintesi, cui ancor sempre deve ricorrere lo specialista che lavora in quest’ambito e che la riapre al momento di impostare l’ennesimo suo lavoro».