Ufficialmente e ufficiosamente, negli incontri di Aung San Suu Kyi nelle stanze dei Palazzi romani, la parola rohingya è rimasta un tabù. Con una eccezione: Oltretevere. La visita italiana della Nobel birmana ora al governo col ruolo di ministro degli Esteri e gran consigliere è andata come doveva andare. Grandi apprezzamenti e sorrisi ma non una parola sulla comunità musulmana del Myanmar oggetto di un’espulsione che dalla Malaysia è stata definita «genocidio» e da funzionari Onu «pulizia etnica». Le fonti ufficiali, ma anche quelle ufficiose, confermano che gli incontri con Gentiloni, Alfano e Boldrini non hanno affrontato il tema e sono rimasti su aspetti tipicamente formali. E’ andata meglio nello Stato del Vaticano dove, spiega una fonte, «ufficialmente la questione non è stata toccata» ma in realtà la Santa Sede la questione l’ha toccata eccome.

NON È DEL RESTO la prima volta che Francesco prende posizione sul dossier birmano ed è stato proprio lui tempo fa a definire i rohingya la comunità più perseguitata del pianeta. In ballo c’era l’annuncio del fatto che la Santa Sede e la Repubblica del Myanmar hanno avviato relazioni diplomatiche e dunque, ufficialmente, nessuno ha tirato la Nobel per la giacca. Ma in privato, un Papa che sta lavorando al tema delle alleanze fra religioni non poteva esimersi dal farle avere un messaggio meno morbido di quello ricevuto a Palazzo Chigi e alla Camera dove la Nobel ha partecipato a una conferenza interparlamentare e dove ha fatto una serie di considerazioni sulle difficoltà per il nuovo governo civile di rendere più salda una fragilissima democrazia.

L’ITALIA, abbastanza distratta sulle questioni birmane, non sembra dunque aver voluto sottolineare un caso che proprio alla vigilia degli incontri nazionali aveva fatto scaturire qualche scintilla a Bruxelles dove la Nobel ha incontrato Federica Mogherini, l’Alto rappresentante della diplomazia europea. Che le due signore avessero toccato il tema è risultato sin troppo evidente quando Suu Kyi ha spiegato pubblicamente che il suo governo non aveva apprezzato la decisione presa dalla Commissione diritti umani dell’Onu di promuovere un’inchiesta indipendente per indagare sulle accuse di violenze, stupri, uccisioni ed espulsioni iniziate all’inizio dell’ottobre scorso contro la minoranza rohingya, ormai largamente sfollata in Bangladesh. Per forza o per disperazione. Suu Kyi si è dissociata dall’iniziativa sostenendo che la decisione «divide due comunità e non aiuta a risolvere il problema», una posizione che Mogherini non le ha fatto passare, invitandola a sostenere l’inchiesta. Anche perché il capo della diplomazia europea ha comunque ribadito al nuovo governo democraticamente eletto l’anno scorso la solidarietà e il sostegno della Ue, politico e finanziario.

I ROHINGYA sono una comunità musulmana che in Myanmar non gode dello status di cittadinanza riservato alle altre entità del paese e secondo i militari birmani si tratta semplicemente di immigrati bengalesi, dunque di stranieri. Forse più della metà della comunità rohingya vive ora fuori dal Paese, “emigrata” o espulsa in gran maggioranza verso il Bangladesh. Per la fragile democrazia birmana è difficile andar contro i militari che sono tra l’altro i responsabili di leggi che hanno permesso, dagli anni Novanta, la confisca delle terre rohingya in favore di investimenti agrari “più produttivi”: land grabbing in altre parole. Per oltre un milione di ettari solo negli ultimi anni. Meglio se nessuno torna a reclamarli.