Il superciclone Amphan, tra i più potenti degli ultimi decenni e con una velocità superiore ai 200 chilometri orari, si sta abbattendo in queste ore sulla costa del Bangladesh, dopo aver colpito le zone orientali dell’India. Il sistema di allarme ed evacuazione del Bangladesh, tra i più efficienti al mondo, è attivo da giorni. Finora sono state evacuate 2 milioni di persone, trasferite in più di 13mila rifugi anti-ciclone.

Oltre alle comunità più isolate, o alle poche che non hanno acconsentito al trasferimento, a sfidare le forze della natura rimangono i Rohingya nei campi sovraffollati verso il confine con il Myanmar, da dove sono fuggiti a più riprese per evitare la pulizia etnica dei militari birmani.

L’area dei campi profughi Rohingya è particolarmente fragile: una serie di colline prima verdi, poi rosicchiate dalla costruzione di centinaia di migliaia di semplici capanne in bambù, corde, plastica, adiacenti le une alle altre, con alcuni edifici in muratura per scuole e moschee. Le organizzazioni non governative, le autorità locali e le grandi organizzazioni internazionali (tra cui Unhcr, Iom, Wfp) hanno cercato di “stabilizzare” il terreno o rafforzare le capanne. Ma i rimedi sono parziali.

E la decisione assunta ad aprile dal governo di Dacca di ridurre dell’80% le attività umanitarie per contenere la diffusione del virus – nel Bangladesh ha contagiato 25.000 persone, nei campi 6, finora – ha compromesso la preparazione, quest’anno.

Dacca assicura che è tutto sotto controllo: una divisione speciale delle Forze armate è pronta a “garantire assistenza medica e recupero d’emergenza nell’area” in cui vive circa un milione di Rohingya: già pronti 18.400 pacchi di aiuto e 71 team medici. Secondo il commissario bangladese per i Rifugiati, Mahbub Alam Talukder, le istituzioni sono preparate e non “c’è bisogno di trasferire” nei rifugi anti-ciclone i Rohingya, che con picchetti e corde hanno provato a consolidare capanne leggere e instabili. L’informazione sui pericoli del ciclone passa di bocca in bocca, di megafono in megafono, attraverso gli altoparlanti delle moschee.

Sia i Rohingya che la popolazione bangladese dell’area non si fanno illusioni. Conoscono bene gli effetti di lungo termine di un ciclone con una potenza simile: vite ingoiate, case divelte, coste spazzate, mareggiate, inondazioni, raccolti ed economie azzerate.

Una distruzione totale. Crisi su crisi: “siamo estremamente preoccupati che ci sia una nuova crisi umanitaria se il ciclone ci colpisce in pieno mentre cerchiamo di contenere il Covid-19”, ha dichiarato Manuel Pereira, vice capo della missione in Bangladesh dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Iom).

Rimane un mistero la sorte di circa 300 Rohingya, trasferiti alcuni giorni fa a Thengar char, o Bhasan char, l’“isola fluttuante” nel Golfo del Bengala che il governo bangladese ha trasformato in un’isola-fortezza dopo un progetto di costruzioni da 250 milioni di euro.

L’obiettivo era “decongestionare” i campi profughi trasferendo sull’isolotto 100.000 Rohingya. “Ogni blocco abitativo è dotato di un centro anti-ciclone e i Rohingya sono stati portati nel centro”, assicurano le autorità di Dacca. Ma nessuno sa se l’isola – sorta in una delle aree del mondo colpite con maggiore frequenza e ferocia dai cicloni – sia capace di reggere la forza di un simile ciclone.

Se così fosse, il trasferimento dei Rohingya – posticipato a più riprese per le forti obiezioni delle organizzazioni per i diritti umani – potrebbe cominciare davvero. In caso contrario, c’è il rischio che decine di Rohingya siano stati esposti a un pericolo mortale.