In aprile la procuratrice capo del Tribunale penale internazionale, Fatou Bensouda, aveva chiesto al Myanmar la possibilità per la Corte internazionale di esercitare la giurisdizione del Tpi su presunti crimini sofferti dalla comunità dei Rohingya, la minoranza musulmana della Birmania che, esattamente un anno fa, è stata oggetto di un esodo forzato che ha portato a 720mila profughi che hanno attraversato la frontiera per cercare rifugio in Bangladesh.

Ma giovedì della scorsa settimana, nonostante il Tpi avesse ingiunto in giugno di dare una risposta entro il 27 luglio, il governo ha respinto la richiesta perché manca di sostanza legale ed è dunque priva di senso.

La giurisdizione sulle presunte deportazioni di musulmani Rohingya dal Myanmar non riguarda il Tpi perché «la richiesta del pm può essere interpretata come un tentativo indiretto di acquisire giurisdizione sul Myanmar che non è uno Stato parte dello Statuto di Roma»: chiarimento riferito al trattato istitutivo del Tpi, mai firmato dai birmani.

Una risposta abbastanza scontata nonostante le pressioni del Bangladesh che da un anno a questa parte ha a che fare con oltre 700 mila profughi accatastati alla frontiera e che si aggiungono ad altre centinaia di migliaia di Rohingya già fuggiti oltreconfine negli anni (stima per difetto: oltre un milione). Cosa che fa del Bangladesh, e non più del Myanmar, il Paese al mondo con la più alta percentuale di questa disgraziata comunità.

La realtà dei fatti – nonostante almeno due accordi importanti per il rimpatrio – è che le bocce sono ferme. Il Myanmar ha firmato un accordo bilaterale di rimpatrio con il Bangladesh nel novembre del 2017 e a inizio giugno ha siglato un altro agreement con Unhcr e Undp per un rimpatrio dei rohingya «volontario, sicuro, dignitoso e sostenibile».

Il memorandum d’intesa con le agenzie Onu è considerato un primo passo verso la realizzazione di condizioni favorevoli per il rimpatrio nello Stato birmano del Rakhine ed è stato creato un gruppo di lavoro tecnico tripartito per sostenere l’attuazione dell’accordo. Accordo che però i leader della comunità rohingya espulsa hanno contestato sia per non essere stati consultati sia perché non ritengono affatto sicuro il loro possibile rientro (in villaggi e case spesso dati alle fiamme).

Quanto all’Onu, in una dichiarazione di qualche giorno fa, si esprimeva la necessità di «progressi sostanziali in tre settori chiave coperti dal memorandum: garanzia di accesso nel Rakhine; assicurazioni sulla libertà di movimento; la scelta di affrontare le cause profonde della crisi». Un riconoscimento di fatto che alle parole e agli accordi non sembra corrispondere la volontà politica dei birmani. L’Alto commissario Filippo Grandi lo ha di nuovo ribadito recentemente con un appello.

La vicenda rohingya viene da lontano. La comunità, che abita da secoli nello Stato ora birmano del Rakhine e che in tempi più recenti ha visto una forte immigrazione dal Bangladesh, è di ceppo e lingua bengalese, oltreché di religione musulmana. Tanto è bastato alle autorità birmane (che un tempo riconoscevano ai rohingya la cittadinanza) per definirli tutti «immigrati bangladesi clandestini», apolidi, senza uno Stato. La religione ha fatto da detonatore anche grazie a monaci radicali come Ashin Wirathu, un uomo cui è stato vietato di tenere sermoni pubblici anche se ciò non gli ha impedito quest’anno di fare un patto con un suo omologo srilankese: il monaco Galagoda Aththe Gnanasara, leader del gruppo radicale Bodu Bala Sena, che proprio giovedì a Ceylon è stato condannato a sei anni di carcere per incitamento all’odio.

I pogrom in Myanmar sono storia di decenni ma i più recenti – a cominciare con l’espulsione di circa 70-80mila rohingya nell’autunno del 2016 – sono arrivati al punto di non ritorno un anno fa quando l’esercito ne ha fatti fuggire centinaia di migliaia in Bangladesh nel giro di pochi mesi. Testimonianze oculari e satellitari hanno documentato uccisioni, stupri, incendi, fosse comuni. La stima aggiornata ora è 10 mila morti. L’Onu ha usato il termine «pulizia etnica»; Amnesty ha definito «apartheid» il modo in cui i rohingya vivono in Birmania; l’ex premier della Malaysia si era spinto a usare la parola «genocidio», quella forse più vicina alla realtà se i rohingya non potranno più tornare nel loro Paese di origine.