C’è qualcosa di pornografico nella vicenda delle statue impacchettate in Campidoglio (mentre turisti e cittadini pagano il biglietto per ammirarle, senza deliqui) per evitare la loro vista, ovvero la loro nudità, al presidente iraniano Rohani.

Niente di divertente o di diplomatico, quasi che il maturo politico persiano potesse cadere preda di pruriti puberali, o di rivalse politiche o religiose, quasi fosse un voyeur, per fedeltà assoluta (e davvero idolatrica) agli ordinamenti di politica religiosa (e di religione politicizzata) vigenti nel suo paese. Il quale paese poi è così bigotto solo nella propaganda che l’Iran gioca sullo scacchiere internazionale. Chi conosce i film della nuova generazione di cineasti, o ha incontrato e ammirato spettacoli e tecniche di artisti iraniani contemporanei, sa che la censura è più nella propaganda che nei fatti. Sarebbe anzi stato divertente e istruttivo se davvero si fosse turbato, il compassato statista, magari coprendosi gli occhi o girando le spalle a tanta marmorea nudità.

Senza neanche pensare, come è stato balbettato nella giustificazione censoria, a ritirare la montagna di miliardi degli accordi stipulati: certo non troverebbe tra i fautori del burqa le tecnologie e le sperimentazioni scientifiche e imprenditoriali che sono maledettamente necessarie in primo luogo proprio all’Iran.

Tanto meno quelle statue oscurate dal cartone («signora mia che casino, ricevere ospiti in un cantiere con gli scatoloni ancora da scartare», avrebbe forse detto a suo tempo la fatidica casalinga di Voghera arbasiniana), non avevano nel loro squallore devozionale neanche nulla di concettuale, come usava qualche decennio fa il genio bulgaro Christo, che avrebbe incartato anche i figli, e che per interloquire con la città di Roma arrivò a impacchettare nel 1972, per la mitica mostra d’arte Contemporanea al parcheggio di villa Borghese, un ampio spicchio delle Mura Aureliane, proprio in cima a via Veneto. Come aveva fatto del resto con i monumenti delle maggiori capitali mondiali.

Quello accaduto in Campidoglio con le Veneri e le Sabine rapite, ha invece un sapore evidentemente squallido, pruriginoso e davvero pornografico: come predicare ai ragazzini di non guardare filmini hard, e invece di aiutarli verso una naturale maturazione affettiva e sessuale, li si sequestri da parte del maniaco adulto per goderseli solo per sé.

Non è una bella posizione quella riservata a Rohani, per quanto possa essere islamico intransigente. Ma neanche per la cultura italiana, finita in burletta su tutti i siti del pianeta. Dando anche l’avvio alla parte più squallida della vicenda, quella del «chi è stato?».

Nessuno pare. Almeno dallo scaricabarile che rimbalza dal Campidoglio politicamente acefalo ai piani alti della politica, dalla sovrintendenza capitolina alla burocrazia di palazzo Chigi. E qui la falla si allarga. Il giglio magico renziano torna sotto accusa, quando ancora non si è sopito il brutto affaire dei Rolex donati dagli sceicchi sauditi come l’oro di Brenno al seguito di Renzi (sempre a caccia d’affari, ma senza essere in grado di apparecchiarli). Con un vistoso gioco delle tre carte attorno ai preziosi orologi che non si sa a chi siano finiti, ma mietendo come vittime chi li aveva rifiutati.

Ora arriva questo eccesso di “sensibilità” che impone al povero Rohani di circolare nei musei della perdizione, invece che in qualche bel colonnato affrescato a motivi floreali, e sul più bello lo priva della miglior vista di cui avrebbe potuto godere. Insomma un vero pasticcio, una barzelletta internazionale, la cui grammatica pecoreccia ricade tutta su chi quel patrimonio culturale dovrebbe amministrare e rendere fruttuoso.

Mentre al povero ministro Franceschini ancora una volta tocca l’apodittica smentita di rito, come fosse Pinocchio, nel paese dei balocchi antichi senza palandrane, e nemmeno biancheria.