Uno dei pregi di Aperitivo in concerto – rassegna a baricentro jazzistico che da novembre, per la trentunesima edizione, si conferma al Teatro Manzoni una piacevole abitudine della domenica mattina milanese – è quello di proporre ad una platea fidelizzata, parte jazzofili stretti, parte pubblico del Manzoni, con la sala pressoché invariabilmente al completo, un cartellone in cui convive una accattivante varietà di proposte. Due domeniche fa, Marc Ribot & The Young Philadelphians, con cui il chitarrista newyorkese, alla testa di una formazione singolarmente assortita (la chitarrista Mary Halvorson, della giovane ricerca vicina a Braxton, e il bassista di culto Jamaladeen Tacuma e il batterista Calvin Weston, entrambi di Philadelphia e distintisi in gioventù nel Prime Time di Ornette Coleman, più una sezione d’archi) ha risolto in divertissement avantgarde il rapporto di odio/amore nutrito per il Philly Sound degli anni settanta. E la domenica successiva tutt’altro mondo con il piano solo di Roger Kellaway, un musicista che in quanto a varietà già di suo non scherza.

Se per il piano jazz il nome di Kellaway può non essere particolarmente presente anche ai cultori della materia, è anche perché il settantaseienne musicista ha sì lavorato con uno stuolo di jazzmen di prima grandezza, si è sì guadagnato un posto particolare negli annali per il «jazz da camera» del suo Cello Quartet, ma è stato anche tenuto ampiamente lontano dalla prima linea del jazz da una intensissima attività come compositore e arrangiatore per la televisione (serie come M.A.S.H e All in the Family) e il cinema e come direttore musicale per artisti del calibro di Barbra Streisand, Liza Minnelli, Joni Mitchell, Paul McCartney.

Ma la varietà non è solo del curriculum. È anche del repertorio, a cominciare dalle sue composizioni, dalla cantabilità pop di Come To The Meadow, al lirismo di All My Life, ad un Soaring che inizia con una delicatezza di timbro e melodia che un qualcosa di Satie, e prosegue poi tra ondosità e rarefazioni per trovare poi il blues, ma comunque in maniera estremamente sorvegliata, prima di tornare al clima iniziale.

erché la varietà in Kellaway è anche fortemente inscritta nel suo stesso stile: incalzante, un C Jam Blues di Ellington si inviluppa poi in una nodosità un po’ «intellettuale», in cui però è evidente anche un lato ludico, per tornare poi al brio e chiudere rapidamente all’insegna dello swing; All Blues di Davis si distende lungamente, fra dinamici passaggi che rivelano la passione di Kellaway per lo stride, momenti impressionistici e astratti, arpeggi compiaciuti: e anche questi ultimi appaiono non come uno scivolamento nell’orpello, ma come un elemento di un preciso dispositivo retorico, che lavora sulla combinazione di dati diversi, sugli effetti di contrasto e sorpresa, in un raffinato, estemporaneo gioco compositivo che fa dell’interpretazione di ogni brano la creazione di un’originale architettura.