«Un critico per l’uomo qualunque», lo descrive il necrologio del New York Times. È molto riduttivo e un po’ paternalistico. Ma Rogert Ebert, scomparso giovedì all’età di settant’anni, aveva in effetti perfezionato un modo elegante per parlare di cinema a chiunque. Anche quando le sue recensioni si concludevano, come nel leggendario programma tv (condiviso con il collega Gene Siskel), con un police alto o verso. Il modo più sintetico che si possa immaginare per «liquidare» un film.

Con alle spalle quarant’anni di lavoro al Chicago Sun-Times (sono loro che hanno dato la notizia della morte) e, per una trentina, seguitissimo settimanalmente sul piccolo schermo, Ebert è sicuramente il critico cinematografico Usa più noto della sua generazione. Se non in assoluto –l’accessibilità delle sue recensioni e la sua visibilità televisiva lo hanno reso più riconoscibile di altri grandi, come Andrew Sarris e Pauline Kael. «Per una generazione di americani –specialmente chicagoani – Roger era il cinema» ha dichiarato ieri (il chicagoano) Barack Obama. «Quando non gli piaceva un film era onesto. Quando gli piaceva era generoso –capace di catturare il potere unico che ha il cinema di portarci in un luogo magico».

Ebert era malato di cancro dal 2006 e, in seguito a un’operazione, non poteva più parlare, ma ha continuato a scrivere fino all’ultimo. Solo mercoledì aveva fatto sapere che, d’ora in poi, avrebbe ridotto il numero delle sue recensioni, scrivendo solo dei film che lo interessavano. L’ultima recensione è stata quella di The Host. Era anche un grande patito di Twitter (800.000 followers), ma non twittava rigorosamente mai durante una proiezione.
Il suo gusto oscillava tra il popolare e l’eccentrico –un mix tipico del Midwest americano dive è nato e da dove ha lavorato tutta la vita. Da giovane è stato uno dei primi grandi sostenitori di Robert Altman. Ma anche l’autore di alcune sceneggiature per Russ Meyer, tra cui Beyond the Valley of the Dolls, Beneith the Valley of the Ultra Vixens e Up! Ebert descriveva il suo approccio critico come «relativo» e, nel corso degli anni, si permetteva (come Sarris, d’altra parte) aggiustamenti su giudizi del passato. Noto per il tocco di lieve sarcasmo, comunemente non era un critico dalla penna «cattiva». Tra le eccezioni, la guerra privata che scatenò a Cannes contro The Brown Bunny di Vincent Gallo, e la sua totale antipatia per il 3D, escluso forse di The Hole, di Joe Dante. Ebert era nato il 18 giugno 1942 a Urbana, in Illinois.

Il primo film che si ricordava di aver visto da bambino, era A Day At the Races, dei fratelli Marx. A ventiquattro anni è diventato il primo critico di cinema del Chicago Sun-Times, dove –insieme a Altman – promosse la New Wave francese e la Nuova Hollywood di Arthur Penn e Mike Nichols. Nel 1975 è stato il primo critico di cinema a vincere un Pulitzer. Nel 2005 il primo a ottenere una stella sulla Walk of fame di Hollywood Boulevard. La sua collaborazione televisiva con Gene Siskel (un collega con gusti molto peggiori e più reazionari dei suoi) era iniziata nel 1975, con un programma per la tv pubblica di Chicago Wttw.
Il programma venne diffuso nazionalmente a partire dal 1978 e, quattro anni dopo, i due firmavano un contratto con la Tribune Entertainment che ha gettato i semi per quello che, nel 1986, sarebbe diventato il loro programma più famoso, Siskel and Ebert at the Movies. «Roger Ebert è stato uno dei grandi campioni della libertà d’espressione» ha dichiarato Robert Redford. «La sua morte è la fine di un’era. Adesso la galleria è chiusa per sempre» ha dichiarato Steven Spielberg.