Robert Rodriguez è un uomo rinascimentale – sempre che di rinascimento si possa parlare in Central Texas. È vero che da Austin Richard Linklater continua a contribuire con film d’autore al canone indie, e South By Southwest, il festival cine-musicale-multimediale cresciuto in quella cittadina universitaria è un ormai appuntamento importante del calendario americano. Ma sono poca cosa al confronto della vulcanica produzione di Rodriguez, cresciuto a San Antonio e trapiantato ad Austin dove, dopo una carriera scolastica passata a scarabocchiare fumetti e a fare horror Z con gli amici, debutta con El Mariachi. Rodriguez scrive, gira, monta e musica lo spaghetti-mexican per meno di settemila dollari entrando nella leggenda metropolitana di migliaia di aspiranti filmmakers. E grazie alla Columbia che rileva la distribuzione, ripulendo il film con centomila dollari di postproduzione, si impone all’attenzione di Hollywood.
Ma il texano figlio di messicani, nella città più ispanica del sudovest, rompe un altro tabù e rivendica la propria regionalità specificando di non esser interessato ad alcun trasferimento a Hollywood: «Non vedo perché non posso lavorare a casa mia; da ragazzo i miei film li ho sempre fatti lì e andavano abbastanza bene».
Una scommessa che Rodriguez ha vinto producendo, oltre al ciclo del Mariachi, Dal tramonto all’alba), Grindhouse, la serie Spy Kids, quella di Machete e Sin City di cui sta per uscire l’attesa sequel, Sin City 2 – Una donna per cui uccidere (uscita italiana prevista per il 2 ottobre), in collaborazione con Frank Miller, più le numerose collaborazioni con l’amico Quentin Tarantino.
In vent’anni insomma il progetto di Rodriguez ha fruttato un polo texano del cinema pulp. I suoi Outlaw Studios, ricavati dal vecchio aeroporto municipale di Austin, comprendono teatri di posa, una divisione di effetti digitali e una di postproduzione audio, e soprattutto sono una prolifica factory per l’America bilingue e multiculturale, i figli e nipoti di immigrati che rivendicano contemporaneamente l’identità «etnica» e l’assimilazione alla cultura «mainstream» dalla musica alla videoludica. Ed è a questo pubblico che si rivolge El Rey, la nuova emittente cable da lui fondata. Già disponibile in 40 milioni di case americane è partita con due serie originali, una basata su Dall’alba al tramonto – Dusk Till Dawn – e una spy-fiction su un calciatore professionista reclutato come agente segreto: Matador.

Un eroe giocatore di calcio, in America non era mai successo prima

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Non abbiamo progettato Matador in vista dei mondiali ma il fatto che il calcio abbia conquistato gli americani quest’estate mi ha fatto sentire super intelligente! Avevamo fiducia nella serie anche se a pensarci adesso sembra fatto apposta. Comunque sono felice che l’America si sia finalmente messa al passo, calcisticamente parlando, con gli altri paesi.

Il suo network si rivolge agli ispanici ma è in inglese, quindi non come le tradizionali emittenti «etniche» in spagnolo?

Volevo che fosse un rete ispanica come possono essere «ispanici» Spy Kids o Desperado o Machete, cioè non in maniera convenzionale. Sono film per tutti, e allo stesso tempo se sei ispanico puoi dire:«Wow! Tutti i protaginisti mi assomigliano». Vedersi riflessi nei media è importante,in America gli ispanici corrispondono al 17% della popolazione ma fra i lavoratori del cinema siamo appena il 2%, fra gli attori di prima serata il 5%. È chiaro che c’è un disequilbrio. Con El Rey ci avviciniamo al 60%, sia nei cast che dietro la cinepresa, rispetto al 2% di Hollywood. Detto questo non si tratta di una prerogativa; è più semplicemente il tentativo di adattare la nostra rete al volto del Paese, di dare una voce a chi non ce l’ha mai avuta, e di creare una tv che somiglia alla nazione in cui vivo.

Quanto l’influenza dei giovani «latinos» sta cambiando l’America?

Moltissimo. Intanto si tratta di una popolazione che spende ormai miliardi di dollari in consumo culturale, un grande pubblico appassionato di buon cinema e tv ed esperto di media, soprattutto fra i «millennials», i venti-trentenni. Ma non è solo a loro che ci rivolgiamo. Spero che nostri programmi saranno abbastanza buoni e vari per conquistare diversi pubblici. L’ultima cosa che voglio è che siano  «scolastici»,che tu ti senta in dovere di guardarli perchè sei ispanico. Deve essere il contrario: li vuoi guardare perchè sono cool, perchè ti danno assuefazione come una droga.

Una svolta culturale?

Credo di si, anzi stiamo davvero cambiando le cose. L’ago si stava spostando ma lentissimamente, di quel passo ci sarebbero voluti ancora cent’anni perchè la tv riflettesse i cambiamenti. Con El Rey a quell’ago abbiamo fatto fare un balzo in avanti. Ci ha dato l’equivalente di un canale di distribuzione proprio, una rete che ci porta direttamente nelle case della gente. Quando hai un sacco di idee e un sacco di amici con un sacco di idee, che come te vogliono rappresentare la loro realtà in televisione per la prima volta, lo puoi fare in modo anche molto divertente. Puoi sperimentare senza dover prima convincere qualche capostruttura che non capisce niente di quello che gli dici. Poi sarà il pubblico a decidere.

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Le prime reazioni?

È stato bello ricevere una telefonata di Quentin, entusiasta perchè in onda c’era una vecchia replica d Starsky & Hutch. Era il primo giorno e non sapevo neanche che fossimo già in onda, e lui: «E stasera date i miei due film di Kung fu preferiti!». Non ci poteva credere. Vorrei che il nostro palinsesto fosse un pò quello che fu Quentin per me, quando andavo a casa sua e gli chiedevo: «Dammi dei bei film da guardare, dimmi quelli che non conosco e che devo assolutamente vedere». E lui mi diceva: «Questo lo devi vedere, e anche questo», e mi spiegava perché. Il palinsesto deve essere ragionato altrimenti si rischia di essere sommersi dalla cacofonia generale.

In particolare?

La gente ci dice che gli piace il fatto di andare in un unico posto e trovarci tutto ciò che è cool; guardi, ti diverti e magari ti fai anche una cultura – sul cinema e sul cinema di genere tipo la storia dei film di kung-fu. Accanto a questa programmazione ci sono i nostri programmi originali, serie che io stesso avrei voluto vedere a cominciare da Dusk Till Dawn, perché quei personaggi di Tarantino non si battono, e nessuno li aveva mai portati in televisione. Una rete tradizionale non avrebbe mai rischiato perché loro pensano solo al minimo comune denominatore, noi invece vogliamo influenzare i gusti oltre che assecondarli. Per questo partiremo con una serie che si chiama Directors Chair in cui io intervisto altri registi; farò John Carpenter, Guillermo del Toro, Tarantino. Quentin sarà in due puntate perché abbiamo registrato per cinque ore (ride,ndr). Non ero sicuro che avrebbe funzionato e invece ora credo che sarà uno dei nostri migliori programmi.

Cosa ci può dire di «Sin City 2»?

Da anni, da quando è uscito il primo film la gente mi chiede ovunque vada quando ne avrei fatto un altro, e questo non succede sempre. Da fumettista sono semrpe staao appassionato dello stile espressionista in bianco e nero che usa Frank Miller e ho cercato di trasporlo tale e quale su pellicola, mantenendo la qualità grafica stilizzata. Ora in 3D trovo che funzioni ancora meglio e il cast ancora una volta è spettacolare, soprattutto Eva Green come femme fatale.

Parliamo dei suoi studios di Austin.

È un posto unico, lo abbiamo creato con l’unico scopo di stimolare la creatività. Mi piace costruire le cose, mi sento come un bambino col castello di sabbia, e questa è anche la filosofia degli studios. La creatività va stimolata, per questo sui miei set c’è sempre una chitarra, gli attori e la troupe preferiscono sentire qualcuno che suona piuttosto che una voce che gli ordina cosa fare. Negli studios abbiamo un laboratorio di pittura. Invece di tornarsene nei camerini, fra una ripresa e l’altra gli attori vanno a dipingere, così rimangono in uno stato d’animo creativo. Ora ho quadri firmati da Lady Gaga, Joseph Gordon-Levitt, Josh Brolin, Jessica Alba, Bruce Willis. I nostri studios sono un parco giochi.

Scriverebbe un altro libro sul cinema?

Se lo scrivessi sarebbe molto diverso da Rebel Without A Crew che scrissi dopo Mariachi. In quel libro spiegavo come fare un film senza soldi. Oggi non è più necessario, con il digitale tutti possono fare un film con un telefonino. Un libro oggi dovrebbe spiegare come far vedere quello che si è fatto.