«Li gettarono per terra con violenza, ridendo, innaffiandoli con il liquido infiammabile, minacciandoli di appiccare il fuoco. E loro, mentre li innaffiavano, non riuscivano ancora a crederci. E mentre il fiammifero si accendeva, ancora dubitavano che la crudeltà fascista li avrebbe trasformati in torce umane, un monito per gli oppositori. E poi la scintilla. E gli abiti che bruciavano in un attimo, la pelle che bruciava, che si staccava. E tutto l’orrore del mondo che crepitava in quei corpi giovani, nei loro bei corpi carbonizzati, che facevano luce come torce nel black out della notte di protesta. Corpi di marionette in fiamme, che sussultavano al ritmo delle risate. Corpi arroventati, metaforizzati all’estremo come stelle di una Sinistra divampante. Dopo il dolore, dopo l’inferno, l’incoscienza. Dopo quella danza macabra un vuoto di tomba, un fosso dove vennero abbandonati perché li credevano morti. Perche solo la loro morte avrebbe permesso di inventare un incidente, una perdita di benzina che aveva dato fuoco agli abiti. E venne l’alba, solo per Carmen Gloria, perché Rodrigo, il bel Rodrigo, forse più debole, forse più bambino, non potè saltare oltre il falò e continuò ad ardere nel profondo della terra».

Così Pedro Lemebel, indomabile voce delle minoranze cilene, ha raccontato in una delle sue famose «colonne» sulla rivista Punto Final la vicenda terribile di due ragazzi bruciati vivi da una pattuglia dell’esercito in una strada di Los Nogales, quartiere povero e periferico con un lunga storia di lotte sociali. A ispirargli quella breve nota del 1999 era stato l’incontro di un attimo, alla Fiera del libro di Viña del Mar, proprio con la sopravvissuta Carmen Quintana, «il volto in fiamme della dittatura», che camminava tra la gente portando con orgoglio «il maquillage perpetuo» lasciato dal fuoco e mai completamente scomparso, nonostante le quaranta operazioni subìte.

lemebel carmen quintana rodrigo rojas 1988

Quando i militari avevano inzuppato di benzina lei e Rodrigo Rojas, entrambi stavano partecipando a una delle tante manifestazioni destinate a paralizzare tutto il paese durante i due giorni di sciopero generale proclamati per il 2 e il 3 luglio del 1986, nell’ultimo scorcio della dittatura di Pinochet: Rodrigo intendeva documentare la protesta, e Carmen faceva parte di un gruppetto che allestiva una barricata con vecchi pneumatici e una tanica di benzina. I due ragazzi non si conoscevano, ma lei, a Los Nogales per distribuire volantini, qualche giorno prima aveva incrociato il giovane fotografo che, alto quasi due metri e con un vago accento da gringo, non mancava di farsi notare.

Torce umane
All’arrivo dei soldati (una pattuglia dell’esercito comandata dal tenente Pedro Fernández Dittus e composta da cinque sottufficiali e diciassette militari di leva, più tre ufficiali in abiti civili) tutti riuscirono a scappare, tranne Rodrigo e Gloria che vennero raggiunti, gettati per terra e innaffiati di benzina. Poi uno degli ufficiali in abito civile, il tenente Julio Castañer, diede loro fuoco con un accendino. I corpi ancora fumanti vennero avvolti in alcune coperte, caricati su un camion e abbandonati nei dintorni della città, a venti chilometri di distanza, dove li trovarono alcuni contadini.
Rodrigo morì quattro giorni dopo (i medici dell’ospedale avevano impedito il suo trasferimento in una clinica meglio attrezzata, racconta sua madre, ed era stata una giovane dottoressa di servizio quel giorno, Michelle Bachelet, a impedire che i militari trafugassero il corpo), e i suoi funerali si trasformarono in una immensa manifestazione repressa con estrema violenza, mentre i tribunali civili e militari si affrettavano a far passare l’accaduto per un incidente provocato da una molotov che Rodrigo avrebbe avuto addosso: una versione confermata dallo stesso Pinochet, la cui moglie – Lemebel ne fa una magistrale e acidissima caricatura nel romanzo Ho paura, torero – nel frattempo commentava: «Perché si lamenta tanto, quella ragazza, per una scottatura da niente?», come riporta la giornalista Alejandra Matus in una sua recente biografia.

Una madre battagliera
Dittus fu condannato a due anni di arresti, scontati solo in parte, per non aver portato i due «infortunati» in ospedale, e un coro unanime che includeva anche il ministro della difesa Patricio Carvajal, il magistrato Alberto Echavarría, i giornalisti del quotidiano El Mercurio (proprietà del potentissimo Agustín Edwards, che solo qualche mese fa è stato finalmente espulso dall’Ordine dei Giornalisti per il suo ferreo sostegno alla dittatura) e il ministro dell’interno Ricardo García Rodríguez, si prodigò nel sostenere la versione ufficiale, mentre il cosiddetto Patto del Silenzio oscurava i crimini dell’esercito cileno e della dittatura.

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Ma come fossero andate le cose non è mai stato, in realtà, un mistero per nessuno, e non solo grazie all’ostinazione di Verónica De Negri, formidabile madre di Rodrigo e battagliera militante di sinistra che, arrestata e torturata per oltre un anno nel campo di concentramento di Tres Alamos, fu costretta all esilio con i due figli (Rodrigo lasciò il suo paese a dieci anni, crebbe a Washington senza mai smettere di sentirsi cileno, e tornò in patria a diciotto anni), o per la tenacia di Carmen Quintana, che in questi anni si è laureata in psicologia e ora vive in Canada, da dove non ha mai smesso di chiedere giustizia. Con gli anni, il bel volto di Rodrigo e quello torturato di Carmen sono diventate vere e proprie icone, e sul Caso Quemados hanno continuato a lavorare le associazioni per i diritti umani, sono state composte canzoni, messi in scena spettacoli (il prossimo, Selva, scritto e diretto da Pierre Sauré, debutterà a settembre), scritti libri come Quemados vivos della giornalista Patricia Verdugo, composte canzoni e girati documentari come Los están quemando vivos, prodotto dalla Vitel, o come lo splendido e premiatissimo La ciudad de los fotografos, realizzato nel 2006 da Sebastián Moreno, figlio di uno dei fotoreporter che nel 1981 fondarono la Asociación de Fotógrafos Independientes per sottrarsi a ogni connivenza con il regime e cercare di evitarne la censura, percorrendo in gruppo le strade di Santiago tra manifestazioni, proteste, arresti.

Rumori di fondo
È a loro che si unì Rodrigo Rojas, entusiasta, solare, sensibile e senza paura come lo descrive suo zio Claudio De Negri (dirigente comunista, ex direttore del quotidiano El siglo e da poco ambasciatore cileno in Vietnam), e sono loro che per ricordarlo hanno istituito il Giorno Nazionale della Fotografia, celebrato ogni 19 di agosto con l’assegnazione di un premio destinato al miglior fotografo giovane. E nel 2013 le opere del fotografo ragazzino, ancora sconosciute al pubblico, sono state esposte presso il Museo di Arte Contemporanea di Santiago, in una sorta di omaggio postumo.

No, il Cile non ha mai davvero smesso di aver presente il Caso Quemados, che è stato per anni una sorta di tenue rumore di fondo pronto a riaffiorare qua e là, fino alla vera e propria esplosione di questi ultimi giorni. Alla fine del mese scorso, infatti, uno dei soldati che facevano parte della pattuglia di Dittus, Pedro Franco Rivas, ha deciso di parlare, e dopo di lui anche un secondo militare, Fernando Guzmán, ha infranto la consegna del silenzio. Clamorosamente riaperto, il caso è ora in mano di Mario Carroza, magistrato che si occupa di crimini del regime commessi trenta o quarant’anni fa. Con pazienza, Carroza ricostruisce storie perdute, segue piste nebulose, rintraccia e interroga testimoni di fatti remoti, arresta e processa colpevoli che per molto tempo sono rimasti impuniti, come Fernández Dittus, rispettabile dirigente di una scuola privata, o come Castañer, consulente dell’esercito ed ex professore universitario. Tranquilli borghesi senza macchia apparente, che adesso si ritrovano imputati, con i soldati cui venne imposto di attenersi alla versione ufficiale, di omicidio e tentato omicidio.

Crimini che riaffiorano
«Carroza è il primo che, in ventinove anni, sembra disposti ad ascoltarmi», ha dichiarato la madre di Rodrigo, dopo aver precisato di non «contemplare il perdono» e di ritenere che esistano responsabilità a livelli diversi: quelle più immediate di Pinochet e dei suoi (la cui opera di insabbiamento è documentata anche dai dispacci custoditi nel National Security Archive degli Usa e desecretati da anni), e quelle, di altro genere, dei governi della transición, che hanno fatto ben poco per perseguire i crimini della dittatura. E così la pensa anche Carmen Quintana, che ha chiesto alla presidente Bachelet di rendere pubblico sin da ora il dossier Valech, frutto dell’indagine di una commissione istituita da Ricardo Lagos nel 2004, senza aspettare che scadano i cinquant’anni stabiliti.

«Roba vecchia, ai cileni non interessa più»; l’ha messa a tacere Fernando Villegas, un sociologo e giornalista molto noto, quando Carmen ha partecipato poche settimane fa al programma televisivo Tolerancia Zero. Ma chissà se è proprio così, visto che quella frase gli è costata il rifiuto dei suoi libri da parte di un libraio di Santiago, ventiquattro denunce davanti al Consejo Nacional de Televisión e una furibonda campagna «contro» sui social media. Forse, anche se il momento non è facile e il governo Bachelet è alla prese con innumerevoli gatte da pelare, il Cile sta cominciando a fare davvero i conti con il passato e a rendersi conto che il suo presente ha bisogno non solo della memoria, ma anche della giustizia per chi non è mai riuscito ad averla, come Rodrigo Rojas e Carmen Quintana.