Osip Mandel’stam nel 1912, guardando alle navate di Notre-Dame come a un gabinetto anatomico, scriveva «come un tempo Adamo, tendendo i nervi / gioca con i muscoli la volta a crociera»: sono i primi versi che affiorano alla memoria aprendo Les Cathédrales de France di Auguste Rodin, taccuino di schizzi e pensieri, un po’ alla maniera di certi libri di viaggio dei fratelli Goncourt, che Castelvecchi traduce per la prima volta a cura di Paolo Martore: Le cattedrali di Francia (pref. di Herbert Read, pp. 156, euro 35,00). «La cattedrale – afferma, infatti, lo scultore – è costruita sul modello dei corpi viventi»; poi, precisando l’equivalenza: «i movimenti di compensazione dell’equilibrio, gesti continui e inconsci della vita, ci chiariscono il principio adottato nel contrafforte volante, di cui gli architetti avevano bisogno per sostenere in maniera salda gli enormi pesi delle loro coperture».
Quella delle membra umane non è, tuttavia, che una fra le possibili analogie, giacché le forme delle antiche cattedrali francesi, siano gotiche o romaniche, ubbidiscono per Rodin alle stesse leggi che strutturano ogni organismo vivente, non solo gli uomini, dunque, ma anche i fiori e le piante. Eccolo descrivere, ad esempio, le grazie floreali delle architetture religiose: «il Gotico ha introdotto nelle sue opere regine i giardini, i frutteti, i filari e tutto il verde delle fattorie (…) E per comporre la festa dei giorni non si è contentato di prendere ovunque a prestito bellezze dalla natura (…) per rinnovare questa festa, per trattenerla nella variazione, ha assimilato le leggi che presiedono alle creazioni naturali». Sotto i suoi occhi i contrafforti si mutano, come già le colonne per gli architetti neoclassici, in tronchi, mentre le vetrate e i rilievi scultorei, sui quali la luce si rompe o si sfalda in soffice bruma, sono le foglie di una Brocéliande favolosa. Ed è sempre la medesima fantasia d’irti cuspidi arboree, come fosforescenti nei primi bagliori antelucani, ad agitare l’immaginazione dello scultore. Talvolta, nel descrivere gli ornamenti, l’occhio di Rodin si sposta dalla foresta ai giardini, ma le sue corolle e i suoi pistilli, allacciati in mistiche corrispondenze, non cessano d’esser incantati: dice «girasoli», «margherite», «tulipani» come vive germinazioni della natura, eppure i termini in cui ne parla non si discostano molto da quelli che Remy de Gourmont impiegò per descrivere il significato delle gemme nel suo celebre Le latin mystique. Viene difficile, perciò, immaginare questi fiori per altre api che non siano quelle allegoriche che si vedono sciamare sullo stemma Barberini.
A Rodin la Natura doveva apparire realmente come quella foresta di simboli, quel tempio di viventi pilastri che vide Baudelaire, mentre a noi codesto ideale di una unità di sensuali corrispondenze, se applicato all’architettura, appare inequivocabilmente 1900. Il gotico e il liberty sembrano opporsi, d’altra parte, in misura assai simile, allo stile eclettico: «Accettiamo di vivere in stanze senza alcun carattere. Scatole riempite alla rinfusa di masserizie. Ovunque regna lo stile dell’accumulo. Come potremmo capire l’intima unità della grande sinfonia gotica?». Unità più d’atmosfera che di effettive proporzioni sicché tale armonia, prima che compresa dalla ragione, è intuita dai sensi: «l’architettura (…) talvolta coinvolge attivamente anche l’invenzione e la ragione; ma è altresì l’arte più strettamente soggetta alle leggi dell’atmosfera, in cui il monumento non smette mai di essere immerso». Tutto ciò non stupisce, se si considera che le idee di Rodin sull’architettura medievale avevano, in comune con l’art nouveau, la loro origine nell’estetismo inglese. A Ruskin può farsi risalire, infatti, l’ideale, illustrato in queste pagine, di una comunità di semplici, i cui artigiani seppero far germogliare la pietra con quella devozione paziente che mostrano i contadini nel fare fruttificare la terra.
Queste e altre concezioni, come quelle in materia di restauro, erano state già elaborate, in forma non tanto diversa, dal critico d’arte inglese in The Seven Lamps of Architecture; ma Ruskin guardava al gotico europeo, Rodin, volendo adattarle alla storia di Francia, ricorre a Chateaubriand, il quale avrebbe potuto esclamare, come l’autore, dinanzi alla cattedrale di Soissons: «Tutti i Re di Francia sono in quest’ombra, in questa torre maestosa che sovrasta!». Lo scultore trova una continuità tra lo stile gotico e il Luigi XIV, continuità garantita dalla quiete dell’antico ordine rurale, dal candore della fede, dalla bontà dei re. Queste cattedrali sono le tombe dei Capetingi, dei Valois, dei Borbone, mesto conclave d’ombre scacciate dall’avvento dell’omnibus e della luce elettrica… ormai non sentiamo più il discepolo di Ruskin ma di Barbey d’Aurevilly!
Se l’interpretazione dell’architettura gotica, come s’è visto, non è nuova, la descrizione dei particolari decorativi e del materiale plastico è di ben superiore levatura. Le sculture, i rilievi sono sentiti come piani di luce, in termini, direbbe Wölfflin, puramente «ottici»: «L’ombra appiattisce le lesene. Qua e là delle strisce meno nere. Si distinguono forme che si dispongono su vari livelli. La luce confonde le maschere senza regolarità, soprattutto quando osservo di tre quarti. Resta la ricchezza imponente del grigio, del nero». Rodin contempla le ombre, sembra volerne sfiorare gli orli, ora ne ammira l’orma leggera come di corvo sulla neve, ora la vede sfioccarsi e ora cadere in plumbei flutti sulle navate vuote. S’accende una luce: «Il sagrestano, accendendo un cero, ha spostato le ombre… C’è un tesoro qui, il tesoro dell’ombra accumulata dalla notte. L’uomo nasconde il tesoro della chiesa». È ancora la fantasmagoria di un passato remoto, troppo nostalgicamente evocato forse, ma questa volta non è più l’epigono di Ruskin, di Chateaubriand o di d’Aurevilly a parlare, ma Auguste Rodin, il grande scultore.