Non gli parlavano gli uomini, ma le pietre», scrisse di lui nel 1902 Rilke, che subito dopo sarebbe diventato il suo segretario per nove mesi (sulla loro relazione, ottima la monografia di Rachel Corbett, You Must Change Your Life, Norton & Company, di due anni fa). Rilke si riferiva soprattutto alla straordinaria collezione di antichità greche e romane che Auguste Rodin aveva cominciato a raccogliere a partire dalla metà degli anni novanta dell’Ottocento, fino a farne un museo nel suo giardino di casa a Meudon nel 1900. Gran parte di questa collezione, di solito al Musée Rodin di Parigi, grazie al sostegno della Bank of America Merrill Lynch si può vedere – insieme ai marmi del Partenone e ad alcuni tra i massimi capolavori dello stesso Rodin – nella mostra Rodin and the Art of Ancient Greece al British Museum (fino al 29 luglio, a cura di Celeste Farge, Ian Jenkins e Bénédicte Garnier, che firmano anche il catalogo, Thames & Hudson, 35,00 sterline), dove il rapporto di Rodin con l’antichità trionfa attraverso la sua collocazione in contesto. Il British Museum è infatti il luogo dove Rodin venne effettivamente in contatto diretto coi marmi del Partenone nel 1881, all’età di quarant’anni, al tempo del suo primo viaggio a Londra. Ne aveva già conosciuti una parte, in verità, al Louvre, dove era di casa, ma l’impatto del British Museum sulla sua realizzazione più compiuta di scultore fu decisivo.
Lì scoprì soprattutto la bellezza del non-finito, che aveva già apprezzato attraverso lo studio dell’arte rinascimentale, ma che si esaltava nei frammenti imperituri dell’arte greca, come se la resistenza al tempo desse al particolare quell’autonomia che l’intero gli toglieva. La fascinazione per l’incompiuto portò Rodin a due dei suoi capolavori, entrambi in mostra: Iris, messagère des dieux (1895) e L’homme qui marche (1907, anche se concepito ben prima), dove l’assenza della testa esalta il movimento del corpo. «Ci rendi orgogliosi delle nostre gambe, uomo vecchio», diceva rivolto proprio all’uomo che cammina Carl Sandburg, il poeta svedese-americano vincitore di tre premi Pulitzer. Sono due bronzi, quelli per cui Rodin è più famoso, ma furono la creta, il gesso e il marmo a dargli la consapevolezza della plasticità dei materiali. Sui materiali in effetti la mostra insiste moltissimo, per invitare il visitatore a entrare nel laboratorio di Rodin, dove la pietra diventava sorprendentemente fluida e l’arte rivaleggiava come sempre con la natura.
Il colpo d’occhio è grandioso, perché la mostra è stata allestita nella nuova ala del British Museum, la Sainsbury Exhibition Gallery, aperta nel 2014 per consentire l’accesso al museo di pezzi di enormi dimensioni. È solo così, ad esempio, che sono potuti entrare I borghesi di Calais, che di solito si vedono nei giardini del Parlamento a Westminster, monumento stupendo alla libertà politica. La loro presenza celebra la continuità tra museo e città, da un lato, e tra Rodin e Londra, dall’altro, cogliendo nel segno: scopo della mostra è infatti valorizzare la collezione del museo nella sua storicità, dimostrando l’influenza che ha avuto sulla produzione creativa nel corso del tempo – e legittimando il fatto che i marmi del Partenone si trovino qui anziché sull’Acropoli di Atene. Fu qui, infatti, che li vide Rodin, traendone ispirazione: qui, in un certo senso, ha avuto la genesi la Porta dell’inferno (in mostra bozzetti, disegni preparatori e frammenti di fasi diverse della lavorazione), cui Rodin lavorò fin dagli anni ottanta dell’Ottocento (senza mai portarla davvero a compimento) solo dopo aver studiato i rapporti tra i corpi e lo spazio nelle sculture dei frontoni del Partenone, come dimostrano i suoi appunti e disegni.
Mostra un po’ ideologica e autocelebrativa, se non fosse che l’accumulo di materiali nella sala suggerisce davvero l’idea della sperimentazione a tutto campo dell’artista nel suo dialogo coi materiali della tradizione. È un Rodin che deve a Canova molto più di quanto non si pensi, sulla base dello stereotipo della loro opposizione, quello che viene fuori da questa mostra: a partire da quel bacio che è un marmo bianchissimo in stridente contrasto con la fama dei suoi bronzi (Le baiser, 1882, di cui qui si vede il calco in gesso). Proprio perciò non sfuggono le mediazioni, in particolare quelle italiane di Dante e Michelangelo, coi quali Rodin condivise sempre il tormento per la sfida della creazione e l’interesse per il destino dei corpi: si comincia infatti con L’âge d’airain (L’età del bronzo, 1876), dove la fotografia di un soldato belga si sovrappone allo Schiavo morente di Michelangelo. Due piccole terracotte, una greca e una rinascimentale, fanno da epitome a questa idea della continuità del lavoro umano attraverso le epoche: Rodin le acquisì nel 1912 e si fece terzo nella genealogia. Con quelle sue mani forti eppure morbidissime che tanto colpirono l’immaginazione di chi lo vedeva al lavoro: Paul Gsell ne descrisse il movimento frenetico nel modellare la creta nel palmo e aggiungerla su altra creta, finché arrivavano il pollice e le dita a schiacciare, curvare, attaccare, compattare e allisciare, mentre Shaw, che gli fece da modello, parlò di una mano che creava come se possedesse lo «slancio vitale».
Tutte le opere esibite meriterebbero in verità una mostra a sé e la retorica dello scultore che ha cambiato la storia dell’arte non aiuta. Il visitatore fatica un po’ a trovare il filo conduttore, perché l’idea totalizzante dell’imitazione dell’Antico, come se Rodin fosse un novello umanista, non funziona a spiegare la varietà delle sculture esposte; ma gli effetti speciali, dalla grandiosità dello spazio alla luce piena, dal video di presentazione sul sito a un catalogo dalle foto patinate con poche informazioni storiche e minimo testo d’accompagnamento, dalle didascalie stile slogan pubblicitari alle fotografie che spruzzano qua e là cenni casuali, si potranno arginare proprio con la disponibilità a ripensare il processo creativo di Rodin in termini artigianali. Da questo punto di vista la mostra è davvero eccezionale ed è il prodotto della svolta introdotta dal nuovo direttore, Hartwig Fischer, che ha abbandonato il culto della ricostruzione a tutto tondo delle grandi civiltà del passato per abbracciare la proposta del museo come spazio dove l’arte non solo si conserva, ma anche nasce: un luogo dove si possa sentire l’insieme dei conflitti e degli stimoli che portano a fare dell’arte non tanto un monumento estetico quanto un sintomo della storia umana, una tensione continua tra materiali, idee, forme.
Quando portò a Londra le sculture del Partenone, Lord Elgin chiese allo scultore più famoso del momento, Canova, di restaurarle e integrarle. Canova rifiutò, perché quei marmi valevano proprio come frammenti, testimoni di un’autenticità che aveva resistito al tempo e che lo scalpello avrebbe solo potuto rovinare, perché, come scriveva ad Antoine Quatremère de Quincy il 9 novembre 1815, si trattava non di marmo, ma di «vera carne, cioè bella natura». Rodin non si allontanò di qui, convinto che quei marmi erano «carne resa pietra dai baci e dalle carezze»: la loro incompiutezza era tanto più affascinante quanto più lasciava spazio alla combinazione tra ammirazione del dettaglio e immaginazione dell’intero.
Non si sa se si rivolgesse direttamente a Rodin, ma certo si rivolgeva a quei frammenti misteriosi, Rilke, quando trovava in un torso di Apollo «un sorriso / fino a quel centro dove l’uomo genera»: il volto assente non mancava, ma si era trasferito in un sincretismo nuovo, dove lo spettatore era invitato a trovare il volto dove poteva, guardando finalmente in altro modo ciò che era abituato a dare per separato. Rodin certo questo gli aveva insegnato: a vedere l’invisibile e sentire la vita. «E questa pietra sfigurata e tozza / vedresti sotto il diafano architrave delle spalle, / e non scintillerebbe come pelle di belva, / e non eromperebbe da ogni orlo come un astro: / perché là non c’è punto che non veda / te, la tua vita. Tu devi mutarla». Vedere i marmi del Partenone con gli occhi di Rodin, ma anche la scultura di Rodin alla luce dell’arte classica: questa potrà essere la vera sfida lanciata dalla mostra allo spettatore, perché la sua vita è osservata da quei marmi proprio come lui li osserva, fino a costituire un invito a cambiare, che è ciò che uno scultore non più giovane seppe fare di fronte alla scoperta del mistero dell’Antico e che un poeta ancora giovanissimo volle fare di fronte a chi dava vita alla materia solo con le mani.