Per una singolare coincidenza, Rod «Rocket» Laver realizzò il Grand Slam nel 1969, l’anno in cui Neil Armstrong «portò» l’umanità sulla Luna. A coniare il nomignolo «Rocket» (missile), che tutt’oggi contraddistingue l’ormai 81enne ex tennista australiano, fu il leggendario coach Harry Hopman, che tuttavia glielo affibbiò con palese intento ironico: quando se lo trovò di fronte in qualità di smilza e minuta promessa, non poté esimersi dal rimarcare che il ragazzino non brillava neanche per rapidità di movimento.

Eppure, quel piccoletto trapunto di efelidi e dai capelli rossicci sarebbe divenuto un autentico prodigio, l’unico cui il sublime Roger Federer viene accostato quando esperti e appassionati si abbandonano al vano ma divertente passatempo di stilare la graduatoria dei più grandi campioni della storia. Nel nobile novero, il mancino australiano trova posto come il solo capace di vincere addirittura per due volte tutti i maggiori tornei del circuito (gli Australian Open, il Roland Garros, Wimbledon e gli US Open) nello stesso anno solare – ci era già riuscito nel 1962 e prima di lui aveva centrato l’elusivo bersaglio l’americano Don Budge nel 1938. Anche Federer, Rafa Nadal e Novak Djokovic hanno trionfato nei quattro major, ma mai nello stesso anno solare. Mentre i magnifici tre si apprestano a contendersi l’ennesimo successo sui campi di Flushing Meadow, un veloce ricordo a cinquant’anni dall’ultima impresa di Laver aiuta a comprendere come i molti cambiamenti intervenuti nel tennis e nello sport in genere rendano quasi impossibile il raffronto fra campioni appartenenti a epoche lontane fra loro.

DOMINIO

Nel gennaio 1969, lo Slam australiano si tenne per la settima e ultima volta sull’erba dell’impianto di Milton Court, a Brisbane. Si trattò di fatto di un campionato nazionale, poiché degli appena 48 partecipanti (contro gli usuali 128 dei quattro tornei principali), appena venti erano stranieri. Erano gli anni in cui gli australiani dominavano il circuito e i più fieri rivali di Laver furono i connazionali Roy Emerson, Fred Stolle e Tony Roche, a loro volta vincitori seriali di major. La semifinale contro Roche costrinse il mancino di Rockhampton alla partita più lunga della carriera, per di più sotto un sole infuocato e con il 95 percento di umidità. Entrambi ricorsero a pastiglie di glucosio e pillole di sale, asciugamani gelati ai cambi di campo e persino foglie di cavolo sotto i berretti, fino a che Laver la spuntò con l’omerico punteggio di 7-5, 22-20, 9-11, 1-6, 6-3. La finale, contro lo spagnolo Andres Gimeno, fu al confronto una sgambata rigenerante e in tre set l’idolo di casa intascò il terzo titolo australiano e i 4.500 dollari del premio.

Anche la terra rossa di Parigi imponeva un alto tributo ai fisici dei giocatori e Laver vi si presentò al top della forma, ben intenzionato a far valere pazienza e accuratezza nel servizio. Dovette inaspettatamente rimontare due set al secondo turno contro il più debole paesano Dick Crealy, ma poi veleggiò con relativo agio fino alla conquista della «Coppa dei Moschettieri», che sollevò superando l’altro mostro sacro down under Ken Rosewall, da cui era stato battuto ancora in finale l’anno precedente.

A Wimbledon, Laver arrivò da campione in carica e con la moglie Mary incinta di sette mesi. Con un gomito malconcio bisognoso di cortisone, prese fiducia demolendo l’ormai declinante Nicola Pietrangeli, che nel 1960 l’aveva costretto a una semifinale fluviale. Risorse dalle sue stesse ceneri per sottomettere l’outsider indiano Premjit Lall e dovette ricorrere al quinto set anche contro l’americano Stan Smith. Sul traguardo, trovò il conterraneo John Newcombe, vincitore nel 1967 dell’ultima edizione dei Championship riservata ai dilettanti. Per Laver, si trattava della sesta finale consecutiva sul Centre Court londinese, considerando i cinque anni di assenza da professionista. Fino al 1968, infatti, i tornei amministrati dalla federazione internazionale erano preclusi a chi sceglieva il professionismo, come facevano tutti i grandi appena si affermavano nel circuito degli Slam, i quali ne risultavano sempre più declassati. Dopo il Grand Slam del 1962, Laver firmò un contratto da 100mila dollari con il Pro Tour gestito dall’ex fuoriclasse statunitense Jack Kramer e fu estromesso dai successivi 21 major, fino a che nel 1968 il Roland Garros fu il primo ad aprirsi a tutte le categorie di giocatori e venne pertanto battezzato Open.

OSSA E MUSCOLI

Il 5 luglio, il punto decisivo fu giocato poco prima delle sedici. Dopo essersi divisi i primi due set, Newcombe salì 4-2 nel terzo con il servizio a disposizione. Sotto di un quindici, seguì a rete la seconda e incrociò una difficile volée bassa di dritto, che Laver rispedì sulla riga con un cross stretto di rovescio in mezza volata. Fu chiaro nel frangente (un colpo dall’altissimo coefficiente di rischio nel momento cruciale del match), il risultato del costante lavoro di potenziamento del braccio che l’adolescente Laver aveva intrapreso con costanza monastica, andando in giro con una pallina nella mano sinistra, che stringeva e rilasciava incessantemente. Ne era risultato un arto massiccio come quello di un peso massimo (un «arm strong», per tornare alla coincidenza segnalata in premessa) e un polso, addirittura largo otto centimetri, in grado di maneggiare agevolmente la racchetta, camuffando fino all’ultimo uno slice con un top, e viceversa. Un passante d’incontro e un doppio fallo consegnarono il contro-break a Laver, che finì per imporsi per 6-4, 5-7, 6-4, 6-4.

Con tre quarti di Grand Slam in tasca, Laver fece rotta per i prati di Forest Hills, quasi ingiocabili per le stesse perturbazioni che pochi giorni prima avevano funestato, ma reso memorabile, il festival musicale di Woodstock.

La finale fu rimandata al lunedì e gli organizzatori impiegarono persino un elicottero per asciugare il terrreno zuppo d’acqua. Di là dalla rete, Laver trovò ancora Roche, che nel corso dell’anno l’aveva battuto in cinque degli otto incontri disputati. Anche stavolta partì bene, aggiudicandosi il primo set. Poi, Laver chiese il permesso di calzare scarpe chiodate e soverchiò l’avversario rimasto con le classiche sneaker: riscosse così un assegno di 16.500 dollari, il massimo pagato fino ad allora (niente, però, rispetto ai 3,8 milioni che arricchiranno il vincitore di quest’anno), ma soprattutto completò il secondo Grand Slam della carriera.