L’incerto trascorrere da uno stile a un altro, da un’epoca alla seguente crea, agli inizi, figure esitanti tra il vecchio e il nuovo, con specie ancora confuse, o allo stato d’abbozzo, cortei di lemuri e di esseri enigmatici, destinati però a sciogliersi nel tempo in più delicate fatture.
Così accade della linea curva nel Settecento – analizzata da Giorgio Villani nel libro Il convitato di pietra Apoteosi e tramonto della linea curva nel Settecento (Leo S. Olschki editore, pp. X-120, con 8 tavv. fuori testo a colori,euro 25,00) –, la quale, pur discendendo per filiazione diretta da quella barocca, è soltanto dopo un interludio di latenze intellettuali che infine si irretisce e fuorvia nei meandri di un più inedito labirinto, verso le profondità dove covano i semi delle nuove piante in fioritura. E ciò magari attraverso un semplice spostamento di lettere e interpunzioni nella prosa, ad esempio, di Voltaire, di cui è nota l’avversione per le congiunzioni, le avversative, le articolazioni e le giunture del periodo; o mediante un ritmo screziato del verso che culmina in Alfieri in un «muro compatto di lapilli monosillabici» e nel suo «parlar franto», stilemi che sono all’origine di quegli endecasillabi della Congiura dei Pazzi: «Tosto sarai timido, astuto, crudo / Quale insomma esser debba, ed è, chi regna». O tramite, infine, una cadenza inusitata nella musica, che evidenzia la cabalistica Temura, vale a dire una nuova e radicale incantagione.
Mutazioni, queste, che troviamo anche nelle differenze infinitesime, e tuttavia sostanziali, fra le navate del progetto per la chiesa di Sant’Eustachio di Borromini e della chiesa del Redentore di Palladio. Quest’ultimo, nella stringente analisi di Paolo Portoghesi, aveva adottato, come soluzione d’angolo, nel punto di intersezione dei due piani prospettici ortogonali, un pilastro quadrato. Borromini, rifiutando tale violenta separazione, riuscirà invece a fonderli in continuum, semplicemente piegando nella curva uno degli intervalli minori. D’altra parte, di simile disgusto per le cesure brusche ed antitetiche, prove infinite troviamo in tutto l’evolversi del Rococò: – dal periodare «per arcate diafane» più che «per solidi ganci» di Vivant Denon, all’introduzione in architettura di torri a spirale , con la finalità di conciliare orizzontale e verticale in una giravolta inaspettata; dal ripudio del ruvido per la «sensitiva scivolosità della seta», alla rivoluzione stilistica che portò il Settecento a spogliare «gli elementi ereditati del loro significato culturale, rendendo plausibili gli accostamenti più improbabili, come quelli di John Carter che in un suo disegno faceva terminare un cornicione classico con delle sfingi egizie»; mentre, sulle superfici della chiesa di Rottenbuch in Baviera, in disordinata uniformità vegetale, «s’abbarbica una tenace edera di stucco, fiorita d’elitre delicate, di ali recise, di ghirigori e di forme fragili, periclitanti».
Tali esuberi, artisticamente coordinati dalla scelta apicale della curva, che dall’alto guida il disseminarsi capriccioso degli eventi, questa simmetria delle contraddizioni, questa vicenda alterna di entusiasmo e ironia, non alludono, peraltro, con una leggiadria danzante che rapisce, allo schlegeliano variopinto brulichio degli antichi Dei, sforanti da tetti affrescati del Tiepolo, che sovvertono l’ormai arcaico insegnare e convertire, nel puro delectare senza inciampi?
Ed è proprio qui la frattura cruciale fra barocco e rococò: ché il primo dal punto di vista della storia culturale è una forma mista con una forte tensione per il classicismo e con esso per gli ordini oggettivi: chiesa, stato, società, i quali preludono alla retorica cesarea, in favore della Roma triumphans. Mentre il secondo, soggettivo eterodosso problematico, pretende ora coniugare ispirazione e intelligenza, estro idea architettura, pensiero e poesia, bellezza e logica, emancipandosi dagli ormai desueti crepuscoli del barocco, per l’alba d’una nuova entelichia.
In simmetria con tale ridestarsi, si dischiude l’età d’oro dell’Enciclopedia che, ormai fuori da specialismi e accademie, intende custodire e divulgare ogni sapere in un sistema serrato e congruente, che dà senso compiuto al pensiero dell’Ecclesiaste: «Tutti costoro nelle proprie mani sperano / E ciascuno è saggio nel suo mestiere. / Senza di loro nessuna città può essere costruita». E ciò mentre nei salotti la parola, proseguendo nel secentesco Ricercare a più voci, non vuole però più come quello chiudersi nel trobar clus o nell’oscura selva dell’indeterminato, bensì in un rischioso, perché libero, scoprire e argomentare, ricco peraltro di futuro, se è vero che in esso troveranno alimento personaggi come Laclos, Stendhal e Nietzsche con opere, direbbe Lao–Tze, indeterminate come il mare, senza scopo come il vento che spira. O come Il convitato di pietra di Villani, un importante testo scritto per tutti e per nessuno.