Rocky di John G. Avildsen. Con Sylvester Stallone, Talia Shire, Burt Young. Usa, 1976.
Nella sporca, e puzzolente periferia di Filadelfia, vivacchia alla buona prezzolato da un gangster mafioso, Rocky Balboa, pugile professionista di modeste quotazioni e di origine italiana. Un gigante buono misto di sottoproletariato e simpatia. Ingenuo e chiacchierone, pur provato dalle violenze di una situazione da emarginato risale la china, ritrova se stesso con l’aiuto di una donna timida e intelligente e dalla bellezza segreta. C’è inoltre l’occasione «dietro l’angolo», per ognuno nella nuova America di Carter: caso vuole che Rocky, novello marciano, incontrerà, per esigenze di show-business il campione del mondo dei pesi massimi(titolo in palio). Perderà onorevolmente ai punti.

Uscirà così dalla puzza morale ed esistenziale che lo opprimeva. Avildsen, un factotum della nuova cinematografia progressista statunitense (è di Chicago, del 1936, è stato fotografo, attore, regista di Joe e di Salvate la tigre) ha diretto con ironia dosata questo scenario firmato dall’attore protagonista, Sylvester Stallone, un esordiente che già pare un classico anche se il suo umorismo risente gli influssi della madre patria.
Uno dei mezzi che sta utilizzando il cinema (divertimento collettivo) per riprender quota rispetto alla concorrenza televisiva è quello di assorbire i meccanismi spettacolari degli sport (anch’essi divertimenti di massa). Baseball americano, hockey su ghiaccio, ed ora boxe (modificati leggermente con un surplus di violenza) tornano sugli schermi e riconquistano, magicamente l’inconscio e «ad arte», l’attenzione del pubblico come se si trattasse di film horror o catastrofici odi guerra. Gli applausi a scena aperta che sottolineano i due K. O. che Stallone infligge allo sbruffone re dei massimi confermano la perfezione degna dell’Oscar del meccanismo emotivo costruito da Rocky.