Da Gesù a Elvis, dal diavolo ai narcos. Dall’horror al romantico, dalla fede al kitsch. I dipinti su velluto sono una forma d’arte misconosciuta e disprezzata, una controcultura nata anticamente in Oriente, radicatasi in Messico e diffusasi come una passione quasi clandestina. Una pop-art di terza classe, creata e amata dai ceti sociali più bassi, diventata una moda negli anni ’70 e oggi riemersa come un universo espressivo popolaresco, unico e singolare, affascinante e caratteristico. Un fenomeno folkloristico snobbato dalla cultura, ma amato dalla gente.

Lo scorso 11 dicembre a Los Angeles, nel quartiere di Chinatown, ha aperto “Velveteria” il primo, e forse unico, museo al mondo dedicato ai dipinti su velluto nero. E’ un ex ristorante cinese abbandonato, riattato e riarredato da una coppia di collezionisti incalliti, Carl Baldwin e Caren Anderson. Nella loro vita hanno raccolto più di 3mila dipinti e ne espongono 420, testimoniando tutta la ricchezza espressiva di questa forma artistica. Vi sono Madonne, paesaggi, ma un’intera stanza è dedicata a rappresentazioni di Elvis Presley. Un’altra ala raccoglie i ritratti di celebrità e idoli deceduti. I pezzi pregiati sono i quadri in velluto di seta giapponese del primo ‘900 e le scene religiose popolaresche degli anni ’20 e ’30. Una sezione raccoglie le conigliette di Playboy dipinte in Vietnam per i soldati americani. Non possono mancare gli animali: cani, gatti e, curiosamente, parecchi unicorni. E in una stanza segreta visitabile solo a richiesta, sono custodite le opere più sfacciatamente kitsch, tra cui, a quanto pare, il ritratto di un celebre anchorman gay della CNN in tanga. Sacro, profano e pacchiano con colori e immagini vivide. Su sfondo nero.

Il Gaugin americano

Le origini della pittura su velluto sembrerebbero ricondursi all’antico Oriente. Marco Polo nel XIII secolo descrisse alcune rappresentazioni religiose di divinità induiste. I dipinti su velluto riapparirono poi nella tradizione religiosa cristiana in particolare in Russia. I conquistadores spagnoli importarono questa forma d’arte nel Nuovo Mondo, dove divenne parte dell’artigianato locale, passando dagli abiti ai quadri. Nel ‘900 un pittore acquistò una certa fama per i suoi dipinti in velluto. Si chiamava Edgar Leeteg e iniziò la sua carriera dipingendo insegne in California. Nel 1930, colpito duramente dalla grande depressione, fece i bagagli e si trasferì nelle isole del Pacifico, prima a Honolulu, poi a Tahiti. Squattrinato, alcolizzato, rissoso, decise di campare vendendo dipinti per pochi soldi, spesso solo per un pasto e un drink. Le sue tele erano in velluto solo perché aveva potuto acquistare d’occasione uno stock invenduto di una fabbrica di tessuti. Paesaggi, fiori, quadri religiosi, scene di vita del Pacifico, ma soprattutto ragazze delle isole seminude. Leeteg produceva a pieno ritmo, spesso copiando senza ritegno, e la sua vicenda venne spesso paragonata a quella di Gaugin. Sfornò tre quadri al mese per circa vent’anni, dipinse più di 1.700 ritratti femminili, si guadagnò un seguito e un mercato di cultori che gli permisero una vita agiata e senza freni. Morì nel 1953 in un incidente causato da un sbronza colossale che si era procurato dopo aver scoperto di aver contratto una malattia venerea. Alla sua morte le sue opere erano quotate fino a 20mila dollari al pezzo. Col tempo venne dimenticato, i prezzi precipitarono e le sue tele di velluto finirono in mercatini e soffitte.

Il boom

La pittura su velluto stava però per fare a un grande exploit e divenne un piccolo fenomeno di culto negli anni ’60 e ’70, in gran parte per i gusti di un viaggiatore americano. Era il 1964 e Doyle Harden, un giovane commerciante proveniente dalla Georgia, arrivò a Ciudad Juárez, al confine Messico-Usa. Scoprì che i negozi di souvenir e artigianato locale erano pieni di questi curiosi dipinti di paesaggi e di villaggi su velluto nero. Lo sfondo esaltava i colori e le immagini, anche se non sempre ben disegnate, erano vivide, accattivanti. Ne comprò sette per pochi peso e se li portò a casa e li espose nei suoi negozi di alimentari. Poche settimane dopo li aveva già venduti tutti e si era ripagato le spese di viaggio. Da quel momento capì che a nord del confine quell’arte modesta e poco conosciuta poteva essere una miniera d’oro. Rinunciò a vendere alimentari e iniziò a organizzare una rete di vendita di opere che esauriva regolarmente le forniture. Il passo successivo fu trasferirsi alla frontiera e dare il via a una vera e propria industria. Nacque la Chico Arts che sfornava dipinti a ripetizione e arruolava centinaia di aspiranti pittori messicani che producevano in serie immagini capaci di guadagnarsi uno spazio sopra al camino delle famiglie della provincia americana. I pueblos messicani avevano lasciato spazio a immagini più a stelle e strisce, ma i colori intensi e sgargianti e il linguaggio artistico semplice e popolaresco rimanevano. Arrivarono gli anni ’70 e il velluto divenne improvvisamente onnipresente, negli abiti, negli arredi, anche sui sedili delle macchine. La moda dettava nuove regole: colori, trasgressioni, eccessi. E tutto quello che era sempre stato considerato di cattivo gusto divenne legittimo. I quadri in velluto nero vissero una stagione di gloria. Dalle case di provincia arrivarono nei bar, nei rock club, nelle camerette dei teen-ager, nelle case della west-coast. Conquistarono i motel e i budget hotel di mezza america. Ma il loro universo visivo si era allargato e al folklore contadino e alla religione si era affiancato il rock. Elvis Presley, già presente in alcuni quadri messicani fin dagli anni ’50, divenne protagonista assoluto: giovane e sorridente con il giubbotto di pelle nera o tutto lustrini, come appariva nei suoi anni a Las Vegas. Dopo la morte il suo ritratto assunse connotazioni devozionali, la star veniva rappresentata come una divinità o in compagnia di Gesù Cristo. Nacque la leggenda dei Velvet Elvis o “Velvies”, icone pagane per il culto dell’indiscusso re del rock. I ritratti divennero un modo per ricordare i miti della cultura pop: Hendrix, Marilyn, John Wayne. Ma arrivarono anche un carosello di immagini colorate, divertenti, sdolcinate, sexy, demoniache, lisergiche o semplicemente di cattivo gusto. L’origine di quasi tutti questi dipinti rimaneva Ciudad Juarez dove Harden formava e istruiva decine di disoccupati senza esperienza, metteva loro davanti una tela di velluto nero e in mano un pennello. I risultati spesso erano modesti, ma l’obiettivo veniva sempre raggiunto. Le ordinazioni arrivavano a migliaia. I “velvet paintings” divennero in Messico per molti l’occasione per sbarcare il lunario e negli States l’arte per chi non poteva permettersi, o non capiva, la vera arte. «Prendevo 10 aspiranti artisti – ha spiegato Harden in un’intervista -. Li mettevo alla prova per capire quale fosse il loro miglior soggetto. C’è chi faceva bene gli alberi, chi le montagne. Facevo fare a uno lo sfondo con due colori. Il quadro passava poi a un altro che disegnava il soggetto in cui era più preparato e così via. Nessuno doveva cambiare mai pennello e colori. Era una catena di montaggio come quelle di Henry Ford». Anche in questa produzione a ritmo continuo qualche nome di artista riuscì ad emergere. Il più celebre fu quello di Chuy Moran che guidava uno degli studi di Harden e che insegnò alla moglie e alle sue sorelle a dipingere per riuscire a mantenere il ritmo delle ordinazioni. Si narra che Moran, di cui si ricordano soprattutto paesaggi naïf con cascate e foreste, fu incaricato di evadere un colossale ordine di 20mila dipinti proveniente da una catena americana di bazar “five-and-dimes”.Il tutto doveva essere completato in una settimana. L’artista mise al lavoro parenti, amici, collaboratori e non dormì per tre giorni di seguito. Ma rispettò la scadenza. Il boom coinvolse anche alte città. Se Ciudad Juarez era Firenze, Tijuana divenne Roma, la città al confine più trafficato del mondo, la capitale della frontiera dove i negozi di souvenir di Avenida Revolucion riempivano le loro vetrine e i loro scaffali di dipinti. La moda si diffuse anche in Canada, e il mercato veniva sostenuto da immigrati, spesso pakistani, che acquistavano le opere in massa per pochi soldi per rivenderle per strada con piccoli profitti.

 

Dal velluto alla cocaina

Il boom si esaurì negli anni ’80. L’ultimo acuto del mercato arrivò grazie a Scientology che per un certo periodo pensò di autofinanziarsi vendendo agli angoli delle strade di mezza America ritratti e quadretti in velluto nero. Ma era la fine di un’epoca. L’industria di Harden diminuì dimensioni e produzione, fino a chiudere gli stabilimenti di Ciudad Jurez e trasferirsi a El Paso dopo uno scontro con il fisco messicano. Molti pittori formatisi nelle sue catene di montaggio divennero artisti veri, altri finirono per lavorare come decoratori nell’industria della pelletteria. I più vennero reclutati dalle fabbriche di Ciudad Juarez diventata nel frattempo un polo dell’industria meccanica con manodopera a basso costo. I dipinti su velluto rimasero sui caminetti e sui muri dei motel a prendere polvere. Nel settembre del 1989 alcuni messicani che vivevano tra la California e Las Vegas spendendo troppi soldi e dicendo di commerciare dipinti in velluto insospettirono la polizia americana. Troppo lusso per un prodotto che non funzionava più. La DEA entrò nei loro magazzini e invece dei quadri scoprì 20 tonnellate di cocaina. Al dettaglio aveva un valore complessivo di circa 6 miliardi di dollari. Uno dei più imponenti sequestri di droga di sempre. Era finito un business e ne era cominciato un altro.

 

L’estetica dei narcos

Ma la storia di questa arte non è finita. Negli ultimi anni, negli Stati Uniti, i “black velvet paintings” si sono trasformati in residui nostalgici degli anni ’70, piccoli trofei del kitsch, oggetti di culto per collezionisti innamorati del trash, ma hanno anche creato una loro nicchia, un’arte da working class che celebra divi spesso defunti. Elvis o meglio “Velvis”, regnerà sempre, ma oggi nei ritratti ci sono il rapper Tupac Shakur, Bob Marley, Michael Jackson, Kurt Cobain. E poi i personaggi dei film, dagli eroi di Star Wars a quelli di Star Trek, fino all’onnipresente “Scarface”. Dal gangster interpretato da Al Pacino si passa ai veri criminali. A sud della “frontera” la narco cultura e l’universo estetico dei boss della mala messicana ha imbracciato un certo folklore grossolano come affermazione di successo e di potere. Ha scritto Leobardo Sarabia, saggista e autore di “Zona de turbulencia” (2006): «Pantaloni da cowboy, camicie imitazione Versace, cappelli texani, cinture decorate. E’ il delirio dei nuovi ricchi, il cattivo gusto come cifra dell’eccesso. Nelle camicie ci sono cromatismi inesprimibili, la Vergine di Guadalupe compete con enormi foglie di cannabis dal colore verde fulgido. La fibbia diventa uno scudo araldico, gli stivali sono di pelle di coccodrillo o di struzzo (con punte metalliche opzionali). Al petto ci sono grosse catene d’oro con simboli religiosi. Nei giovani narcos c’è un impulso decorativo, il desiderio di status e della ostentazione della ricchezza». E così alle pareti delle loro case o dei loro covi riappaiono i quadri in velluto, i “cuadros en terciopelo”, questa volta con soggetti attualizzati agli idoli dei narcos e ai loro riferimenti. La fanno da padrone le leggende Azteche come quella tragica degli amanti Popocatépetl e Iztaccíhuatl e le figure del pantheon religioso della criminalità: le Madonne, la Santa Muerte e il santo protettore dei narcotrafficanti Jesus Malverde, un’invenzione del folklore malavitoso messicano.

In Messico non c’è però più nessuna industria di questa arte nata povera e tornata povera. Oggi molte di queste opere arrivano da India e Cina e anche se la firma è spagnola la produzione è globalizzata. Sono rimasti solo alcuni pittori tradizionali e poco altro. Uno di questi si chiama Javier Tejeda Jaramillo e negli ultimi anni ha esposto in alcune gallerie messicane, negli Stati Uniti e ha avuto anche una personale allestita in Nuova Zelanda. Il laboratorio di Javier, 60 anni, si trova al Reclusorio Norte, un carcere di città del Messico costruito per ospitare 4mila detenuti e che oggi ne ospita più di 13mila. E’ la sua casa da ormai vent’anni da quando fu arrestato su ordine della DEA americana. In gioventù Tejeda era un pittore di quadri in velluto, non aveva nessuna formazione artistica, ma era arrivato nei momenti più fiorenti a produrre anche 200 copie dello stesso quadro. Le sue opere venivano vendute poi al dettaglio per 12 dollari. La crisi del mercato lo convinse a cambiare lavoro e a entrare nella polizia locale di Tijuana. Come spesso accade agli agenti messicani, si mise a libro paga della criminalità fino a che non gli venne chiesto di partecipare al sequestro di Enrique Camarena, un agente americano della DEA che si era infiltrato nel cartello di Rafael Caro Quinterno, capo dei capi dei narcos di Sinaloa. Camarena venne torturato e ucciso (la sua storia compare, romanzata, in “Il potere del Cane” di Don Winslow). Tejeda venne arrestato insieme ai boss e condannato a 40 anni di carcere. Una parabola personale che riassume il percorso della stessa pittura su velluto: dal successo commerciale al sottobosco dei narcos. «Si può vivere il carcere anche in una dimensione positiva – ha detto Javier in un’intervista -. Faccio parte di una scuola di arte figurativa e studio pittura ormai da vent’anni. Così si può sopportare una pena come la mia. La cosa più importante è lavorare».

 

Velveteria, il Louvre in velluto

A parte il transitorio e dimenticato successo di Edgar Leeteg e le mostre di Javier Tejeda Jaramillo, la pittura su velluto è sempre stata ritenuta una forma di basso artigianato. E’ entrata a stento nelle gallerie ed è stata rifiutata dalle accademie. I dipinti in velluto si comprano oggi su e-bay a 30 dollari. Gli stessi quadri di Leeteg, una volta merce preziosa, si trovano on line per meno di 200 dollari. «La gente trova di cattivo gusto addirittura chiamarla arte – disse Doyle Harden -. E non ho neppure incontrato nessuno che ammettesse di avere dei quadri in casa. Ma io ho venduto più di 100 milioni di dollari in opere in velluto e per me rimane una meravigliosa forma d’arte». Come lui la pensano Carl Baldwin e Caren Anderson fondatori di Velveteria. Il museo è in realtà la seconda vita di uno spazio espositivo che avevano aperto qualche anno fa a Portland, ma che avevano chiuso nel 2010. La nuova sede losangelina realizza per loro il progetto di una vita. «Iniziammo a collezionare opere nel 1999 – spiega Carl Baldwin ad Alias –. Eravamo in Arizona e acquistammo un dipinto di donna con una capigliatura afro in blu. Fu il nostro primo passo in questo viaggio di velluto. Ci siamo così chiesti che fine avessero fatto tutti quei quadri che negli anni ’60 e ’70 si vendevano agli angoli delle strade e che ero abituato a vedere negli Head Shops (negozi di accessori per il consumo di cannabis). Iniziammo così a cercarli e a comprarli nelle botteghe dell’usato. Ben presto ne avevamo già 50. Organizzammo una festa dove un gruppo di persone solitamente noiose si animarono vedendo i quadri. Dapprima la gente se ne prendeva gioco poi iniziavano ad apprezzarli». «Questa arte non intimidisce – prosegue Carl – E’ accessibile, non richiede preparazione culturale e la gente è libera di dire quello che pensa. Chi entra nel nostro museo è bombardato con così tante immagini e colori, è travolto e rimane sopraffatto». Ma come tanta arte popolare alla fine anche i dipinti in velluto nero racchiudono storie di tutti i giorni: «Ci raccontano del nonno che ne aveva uno in soffitta e che hanno trovato dopo la sua morte. Oppure di famiglie che hanno litigato per un quadro. Molti hanno un vero affetto per queste opere. Le donne amano gli Unicorni che magari avevano nelle loro stanze da piccole. Ci sono diavoli tentatori. Rockstar che dopo la morte vengono subito immortalate sul velluto. Eroi politici e rivoluzionari come Martin Luther King o Malcolm X» I capolavori della raccolta, assicurano a Velveteria sono un ritratto di Edgar Leeteg della moglie Jacqueline fatto a Tahiti, le opere della pittrice Cecelia Rodriguez un’artista oggi 95enne che ha dipinto di tutto, dalle immagini di Cristo alle isole hawaiane, e quelle di in pittore di Nogales, in Arizona, chiamato Daniel Guerriero. «I miei quadri preferiti sono però le ragazze polinesiane nude sulle spiagge tropicali…. Il paradiso di ogni uomo. A chi non piacerebbe passare la vita a fare l’amore con le ragazze delle isole?». Alla fine anche quest’arte minore è in grado di regalare sogni. «E’ entrata da noi una giovane coppia del Texas – racconta Carl -, poco dopo sentiamo un urlo… il ragazzo aveva chiesto alla fidanzata di sposarlo proprio qui. La gente si sente libera di fare quello che vuole di fronte a questi quadri. Sono convinto che prima o poi avranno una figlia. E la chiameranno Velvet».