Quando Marty McFly, nel novembre del 1955 si esibisce in una furiosa versione di Johnny B. Goode sperando che i suoi adolescenti genitori si innamorino durante il ballo «Incanto sotto il mare», Chuck Berry è già da qualche mese un artista sotto contratto con la Chess Records, l’etichetta di Chicago, casa di Muddy Waters, Willie Dixon e tutto il gotha del blues. Ma i singoli che Berry aveva pubblicato fino ad allora, ancora non avevano sviluppato quel folgorante riff chitarristico che sarebbe diventato l’essenza stessa del rock’n’roll. Non possiamo quindi escludere a priori che Chuck abbia tratto ispirazione dalla telefonata di suo cugino Marvin Berry che gli fa ascoltare «quel nuovo sound che stai cercando». Per inciso, il fatto che nel film fosse un bianco (Michael J. Fox) ad eseguire il pezzo, scatenerà una sequela di polemiche politiche e culturali in ambito afroamericano. In realtà, da un altro punto di vista, proprio quel bianco che suonava Johnny B. Goode poteva servire a riconoscere che il r’n’r l’avesse effettivamente inventato Chuck Berry e non Elvis. Da notare che rispetto all’ambientazione temporale del film, la prima volta che il mondo ascolterà uno dei suoi immortali intro chitarristici sarà con la pubblicazione di Roll over Beethoven, nel maggio del 1956. Johnny B. Goode verrà pubblicata circa due anni dopo. Ma come ci piacerebbe che la formidabile fantasia di Robert Zemeckis in Ritorno al futuro fosse reale. Ovviamente il sound di Chuck Berry non veniva dal futuro. Com’è naive dire che tizio o caio hanno inventato un canone musicale! La verità è che il rhythm and blues era suonato da anni e il riff di Johnny B. Goode è rubato quasi nota per nota da Ain’t that Just like a Woman, un blues del 1946 di Louis Jordan. Berry usa progressioni classiche già usate da Bill Crudup e dallo stesso Muddy Waters ma innova, fonde lo spirito del blues con un sound più tagliente; grazie alla vicinanza col suo mentore e storico pianista Johnnie Johnson rielabora sulla chitarra fraseggi tipici del piano boogie e invece di mettere l’accento sui tempi forti della battuta, segue il rullante della batteria sul secondo e quarto tempo. Aggiungi una leggera distorsione naturale e il risultato è rivoluzionario.

Non è esagerato dire che Chuck Berry mette la chitarra al centro della musica rock e così facendo crea l’immaginario legato alla sei corde che arriva fino a oggi. Berry è stato il primo «guitar hero» della storia del rock ma anche un vero e proprio «cantautore» (singer-songwriter, come dicono gli americani); l’uomo che spinse dei brufolosi post-adolescenti inglesi di nome Jimmy Page, Jeff Beck, Keith Richards, John Lennon, Eric Clapton, Pete Townshend a prendere in mano una chitarra dando loro un’identità, uno spirito di appartenenza, una mitologia di riferimento. Pochi anni dopo quegli stessi ragazzi avrebbero restituito il favore alla generazione successiva di teenager statunitensi che poco o nulla sapevano dei padri afroamericani del blues e del rock’n’roll.
Come ricorda Bruce Springsteen: «Gli artisti della mia generazione hanno conosciuto Chuck Berry attraverso i Beatles e gli Stones. Il primo riff di chitarra di Chuck, l’ho imparato attraverso Keith Richards». Il chitarrista Chuck Berry crea il riff, elemento identificativo principe delle grandi canzoni rock. Si parte da Roll over Beethoven per arrivare a Satisfaction e poi ancora Voodoo Chile, Whole Lotta Love, Smoke on the Water, l’elenco sarebbe infinito. Per tagliare corto e coprire in una riga 50 anni di rock, si può dire che senza Johnny B. Goode non esisterebbe Lonely Boy dei Black Keys.

Il paroliere Chuck Berry poi, è più importante di quanto si possa essere portati a credere. Roy Orbison diceva: «Nessuno usava le parole come lui: ti colpivano, erano taglienti, seguivano il ritmo della batteria. Una forma libera di espressione che replicava con la chitarra». John Lennon notava la sua capacità di critica sociale e la sua metrica capace di influenzare lui stesso e persino Bob Dylan. Berry è il primo storyteller del r’n’r, un creatore di personaggi (Johnny B. tornerà in diverse canzoni nel corso degli anni), un narratore di storie, un geniale inventore di immaginari pop («Non ho mai visto una Cadillac color caffè, ma so esattamente che aspetto ha», dice Bruce Springsteen a proposito della «coffee colored Cadillac» cantata in Nadine). Un immaginario pop del quale lui stesso è diventato parte integrante: un carattere a dir poco spigoloso – chiedete pure a Keith Richards, che non ha mai smesso di venerarlo malgrado, si dice, sia anche stato preso a pugni in faccia – uno spirito punk che fa impallidire i Sex Pistols, con i suoi concerti spesso disastrosi, fatti con band reclutate sul posto alle quali nemmeno comunicava titoli e tonalità delle canzoni – come capitò a un giovane e semisconosciuto Springsteen nel lontano 1973 – dicendo soltanto: «Suoneremo canzoni di Chuck Berry», dando per scontato che dovessero tutti conoscerle a memoria. Ma come dargli torto?