Nel maggio 1981 i Van Halen erano una delle rock band più popolari del pianeta ed erano all’inizio di uno dei loro formidabili tour sulla scorta del successo dell’album Fair Warning. Noel E. Monk, manager della formazione, doveva ancora raggiungere il gruppo ed era nel suo ufficio quando ricevette un’allarmante telefonata dall’addetto all’organizzazione della tournée che gli annunciava che aveva ordinato di mettere David Lee Roth, il frontman della band, nonché di fatto il loro datore di lavoro, in una camicia di forza. Solo nel mondo del rock certe storie possono accadere. Ma erano gli anni Ottanta ed erano i Van Halen.

Noel Monk divenne tour manager del quartetto californiano nel 1978. La Warner Bros., che aveva reclutato il gruppo con un contratto truffa, lo scelse a ragion veduta. Monk si era fatto le ossa al leggendario Fillmore East e a Woodstock, ma, soprattutto, era stato tour manager dei Sex Pistols nella loro avventurosa e calamitosa trasferta americana ed era riuscito a sopravvivere. Era la persona giusta per accompagnare quattro ragazzi di indiscusso talento, ma dalla condotta non esemplare.

I Van Halen si sarebbero presto trasformati da gruppo esordiente nella principale attrazione hard rock del pianeta. Monk qualche tempo dopo divenne non più tour manager della band, ma manager personale, riuscendo a ottenere contratti milionari per i suoi assistiti. La sua esperienza con i Pistols è raccontata nel libro autobiografico 12 Days on the Road, ora Runnin’ with the Devil. Alle origini dei Van Halen, scritto da Noel E. Monk con l’autore Joe Layden, viene pubblicato in Italia nella collana Chinaski dalle Edizioni Il Castello.

Il libro di Noel E. Monk dedicato ai Van Halen

ECCESSI

Una band, quattro storie: l’immenso talento e la fragilità del chitarrista Eddie Van Halen; l’istrionismo e l’ego smisurato del frontman David Lee Roth; la gelosia, la rabbia repressa e la crudeltà del batterista Alex Van Halen, fratello di Eddie; l’umiltà e la costante umiliazione al servizio del gruppo del sottovalutato bassista Michael Anthony. L’esperienza insegna che bisognerebbe diffidare dalle memorie dei manager: figure troppo vicine agli aspetti più realistici ed economici e meno artistici della vita dei musicisti.

Tuttavia Monk non assembla una cinica biografia scandalistica, né è accusabile di opportunismo, essendo il libro uscito negli Usa prima della morte di Eddie, avvenuta nell’ottobre 2020. Racconta sì di notti selvagge, di eccessi sconcertanti di sostanze (tra cui quella che causò l’uso della camicia di forza), di camere di hotel distrutte, di discografici tanto rapaci quanto ingenui, di esilaranti incidenti nei backstage, ma ricostruisce il percorso artistico e umano di un gruppo che ha ridefinito nel bene e nel male gli standard del rock e dell’essere rockstar.

I Van Halen anticiparono gli anni Ottanta, prepararono il terreno alla generazione di Mtv e all’ondata «hair metal», rivoluzionando anche i canoni dei live show. Monk accettò di lavorare per loro prima ancora di aver ascoltato una loro canzone, fu rapito dall’immenso e stupefacente virtuosismo chitarristico di Eddie, dall’energia incontenibile di David, ma capì sin dai primi momenti l’equilibrio instabile di un gruppo in cui le personalità erano capaci di esaltare il pubblico del rock e contemporaneamente distruggersi a vicenda.

Quando i Van Halen divennero se possibile ancora più popolari con la hit Jump, la magia si era già spenta. Le tensioni avevano raggiunto il parossismo. David Lee Roth era sedotto da una carriera solista e si immaginava star di Hollywood, Eddie e Alex erano in preda a ossessioni e manie di persecuzione in parte causate dalle loro dipendenze e il povero bassista Michael Anthony era ormai stato emarginato. Vittima di queste dinamiche fu lo stesso Monk che sarà messo alla porta senza convenevoli, interrompendo per sempre la sua relazione umana e professionale con i quattro.

Poco tempo dopo Roth lasciò la band che proseguì con un nuovo cantante, Sammy Hagar. La svolta sarà traumatica, ma i Van Halen riuscirono a rimanere sulla cresta dell’onda.

DIETRO LE QUINTE

I manager e i tour manager rappresentano nella storia del rock delle figure spesso o troppo esaltate o troppo sottovalutate. Non sono sempre i principali protagonisti del successo degli artisti con cui lavorano, ma non di rado sono gli architetti silenziosi delle loro carriere, svolgendo compiti ingrati e ignoti al grande pubblico.

Non sappiamo oggi se i Beatles sarebbero diventati i Beatles senza Brian Epstein, scomparso nel 1967 in un incidente. Sappiamo che senza di lui la loro carriera finì troppo presto. Ci si può interrogare sull’importanza di Andrew Loog Oldham nel creare la fama dei Rolling Stones che volle plasmare come una risposta trasgressiva ai Fab Four. Sicuramente Elvis Presley avrebbe avuto una carriera diversa e più concentrata sulla musica se accanto non avesse avuto l’inquietante presenza del misterioso Tom Parker, il sedicente «colonnello» che costrinse il re del rock’n’roll a scelte artistiche redditizie, ma discutibili.

Ma queste figure appartengono a un’epoca in cui il rock si stava trasformando da fenomeno giovanile che si pensava destinato a non durare nel tempo, in una rivoluzione culturale di massa. Saranno gli anni Settanta a creare le moderne figure di manager capaci di pensare su scala globale e di tour manager in grado di gestire eventi intercontinentali e pensati per decine di migliaia di spettatori.

La figura cardine in questa metamorfosi è, nel bene e nel male, l’inglese Peter Grant che legò la sua fama alla carriera dei Led Zeppelin. Grant, nato a Londra nel 1935, si fece le ossa lavorando per Don Arden, un impresario dai metodi bruschi e minacciosi che divenne noto nell’ambiente musicale come l’«Al Capone del pop» e che annoverava tra i suoi clienti Jerry Lee Lewis, Little Richard e poi i Black Sabbath.

Da Arden, che diventerà il suocero di Ozzy Osbourne (era il padre si Sharon Osbourne), Grant imparò i metodi spicci e che nel mondo dello spettacolo la paura è un’efficace strumento di contrattazione.

Alto un metro e novanta, 120 chili di peso, Grant era intimidatorio non solo nei modi, ma anche nell’aspetto. Accompagnò i Led Zeppelin nel loro primo tour Usa alla fine del 1968. La band era sconosciuta, non aveva ancora un album in commercio, ma Grant trovò loro un posto come gruppo di supporto spedendo ai promoter la copia ancora inedita del loro disco di debutto. Quel breve tour da sconosciuti iniziò a consolidare l’impressione che i Led Zeppelin fossero la nuova grande promessa del rock.

Il successo arrivò improvviso e travolgente Grant nel 1972 riuscì a negoziare un impensabile accordo per cui la band percepiva il 90% del ricavato dei concerti, quando normalmente la percentuale superava a stento il 50%. Il manager e il suo entourage crearono attorno alla band un alone di mistero e potenza e attorno a se stessi una reputazione di persone con cui non si doveva scherzare. Grant non aveva remore a minacciare i giornalisti che non parlavano bene dei suoi protetti, fece licenziare il vignettista del Guardian per una caricatura non gradita. Ha scritto Mark Blake nella biografia Bring it on Home dedicata al manager e pubblicata nel 2018: «Quando si trattava dei Led Zeppelin, Peter era ossessionato su ogni dettaglio, su ogni critica, su ogni piccolo errore».

Guai a sgarrare. I Led Zeppelin una decade prima dei Van Halen furono la prima rock band a vivere i tour come delle invasioni barbariche, scandendo le loro tappe con devastazioni di camere di hotel, feste post concerto senza nessun taboo o freno. Grant garantiva impunità, protezione e complicità. Nel quadro però entrò ben presto anche la cocaina, allora ritenuta un genere di conforto quasi inevitabile e il manager ne cadde vittima.

La sua fama finirà però per rovinarlo e con lo scioglimento dei Led Zeppelin dopo la morte del batterista John Bonham, si ritirerà afflitto da problemi di salute che lo porteranno a una morte prematura nel 1995.

ORGE E SQUALI
La sua storia si confonde anche con quella del suo luogotenente, il tour manager Richard Cole, che aveva reclutato dicendo «se mai ripeterai quello che ci diciamo in ufficio, ti strappo le tue fottutissime orecchie». Era l’uomo che doveva risolvere i problemi, che non poteva mai rispondere al suo capo «non è possibile» e che condividerà tutti gli eccessi della band. Nel 1969 darà inizio in un motel di Seattle alla famigerata orgia con gli squali, uno degli episodi più scabrosi della storia del rock, che vide coinvolto Cole, la band e una giovane groupie. Nel 1977 a Oakland in California il tour manager è anche al centro di una furibonda rissa tra l’entourage del promoter Bill Graham e quello della band inglese.

Ma l’episodio più incredibile accadde proprio in Italia dove Cole venne arrestato con l’accusa di essere uno degli autori della strage di Bologna. Il road manager era caduto in disgrazia con Grant in particolare per il suo uso ormai fuori controllo di droga. Arrivò in Italia nell’agosto 1980 per una vacanza, pagata proprio da Grant, che doveva rimetterlo in carreggiata, tenendolo lontano da vizi ed eccessi. Misteriosamente però qualcuno gli fissò un appuntamento in un hotel di Roma: trovò la polizia che lo arrestò con l’accusa di terrorismo. Andò a Rebibbia, dove le surreali imputazioni caddero quasi subito. Erano frutto di una atroce soffiata fasulla forse architettata dal suo capo, ma la droga trovata nella sua stanza d’albergo durante una perquisizione lo costrinse a passare sei mesi in carcere. Un giorno di settembre di quell’anno un compagno di cella gli disse che aveva sentito che uno dei Led Zeppelin era morto, ma non sapeva chi. Cole tornò libero qualche mese dopo: la band per cui aveva lavorato non esisteva più ed era rimasto senza lavoro.

STRATEGIE
Negli anni in cui i Led Zeppelin stavano conquistando il mondo, un manager di New York, Mike Appel, metteva sotto contratto un promettente rocker del New Jersey e gli procurava un’audizione alla Columbia Records.

L’artista era Bruce Springsteen e l’audizione si concluse con il leggendario John Hammond che diceva al giovane cantante «Benvenuto alla Columbia». Appel era stato bravo a procurargli quell’audizione con uno dei massimi protagonisti del mondo discografico americano, ma come ha ricordato Springsteen nella sua biografia Born to Run, il suo comportamento in quell’occasione fu quasi deleterio. «Mi presentò a Hammond – ha raccontato Bruce – come il secondo avvento di Cristo, Maometto e Buddha, precisando che mi aveva portato da lui per appurare se la scoperta di Dylan fosse stata un caso fortunato o se invece avesse orecchio sul serio. Una strategia curiosa per ingraziarsi l’uomo che aveva in mano il nostro futuro. In seguito John mi avrebbe raccontato che in quel momento ci avrebbe preso volentieri a schiaffi».

Per fortuna il talento di Springsteen era tale da far dimenticare la tracotanza del suo manager. Appel stava seguendo la scuola degli impresari duri e inflessibili, e, all’oscuro del suo assistito, si stava arricchendo grazie a un accordo contrattuale fin troppo favorevole. Per un po’ di tempo Bruce abbozzò, ma arrivato al successo con l’album Born to Run era inevitabile la resa dei conti. «Quando il gioco si faceva duro Mike tirava fuori le unghie – scrive il rocker nella sua autobiografia – era un uomo coriaceo, di stampo New York/New Jersey. Ribatteva colpo su colpo, la battaglia lo caricava e lo esaltava. Il problema era quando le acque si calmavano.

Certa gente è fatta così, non riesce a smettere di lottare». Si arrivò alle vie legali. Springsteen tentò di impugnare i contratti, ma, anche se era stato sostanzialmente ingannato, la firma era la sua. Tutto si concluse con un accordo: «I soldi si erano volatilizzati – ricorda Bruce – ma la musica era sostanzialmente mia ed ero libero di gestire la mia carriera senza ostacoli». Mike Appel si vendicherà pubblicando una biografia rancorosa, Down Thunder Road, ma col tempo i due si ritroveranno come vecchi amici. Il successo e la longevità della carriera di Springsteen ha cancellato i vecchi rancori.

Talvolta i manager che fanno troppo i furbi finiscono nelle canzoni dei loro artisti. È quello che è accaduto all’inglese Norman Sheffield, primo manager dei Queen. Proprietario con il fratello degli studi di registrazione londinesi Trident, Sheffield portò Freddie Mercury e compagni verso l’etichetta discografica Emi. Ma i rapporti non furono mai idilliaci. La band iniziò a odiare Sheffield soprattutto perché a ogni richiesta di soldi o di investimenti in attrezzature musicali il manager continuava a ribadire che i soldi non c’erano. L’impressione, non errata, è che le royalties finissero nelle tasche sbagliate. La band lo liquidò e si affidò a John Reid, conosciuto grazie a Sharon Osbourne.

Ma l’ultima vendetta del quartetto fu una canzone, Death on Two Legs, pubblicata nell’album A Night at the Opera. Il testo non nominava mai il manager, ma le allusioni erano pesantissime: «Succhi il mio sangue come una sanguisuga», «Hai preso tutti i miei soldi e vuoi di più», «Sei un topo di fogna che si decompone in un pozzo nero di boria». Si narra che il testo fosse così esplicito che lo stesso Mercury finì per vergognarsene e che fu Brian May a convincerlo comunque a portare a termine la canzone. Sta di fatto che Sheffield, ormai licenziato, ascoltato il brano fece causa ai Queen. Nel 2013 ha cercato di dare la sua versione dei fatti in un libro di memorie dal titolo Life on Two Legs: Set the Record Straight. È morto nel 2014 e Brian May lo ha ricordato con un saluto affettuoso, ma distaccato: «Abbiamo avuto le nostre divergenze, ma nel grande schema delle cose, tutta l’acqua è ormai passata da tanto tempo sotto il ponte».

ANGELO CUSTODE

In questo mondo fatto di violenza e tradimenti c’è spazio anche per storie a lieto fine. Dave Grohl nella sua recente biografia Storyteller che negli Stati Uniti ha venduto più di 300mila copie (in Italia pubblicata da Rizzoli) ha solo parole di grande amicizia per il suo tour manager Gus Brandt. Un angelo custode che lo tira fuori di cella da una prigione australiana e, sempre durante una tournée dei Foo Fighters agli antipodi, gli organizza e lo accompagna in un furioso tour de force, una non stop Australia-California-Australia che gli consente nell’arco di tre giorni di suonare due date del tour e contemporaneamente non perdersi una recita scolastica della figlia.

E in un mondo che spesso ha marginalizzato le donne, se non addirittura trattandole come oggetti, spicca la coraggiosa Kim Hawes che ha lavorato per trent’anni come tour manager di artisti rock. Tra i suoi clienti Elvis Costello, Chumbawamba, Hawkwind, Black Sabbath, Rush. Per dieci anni è stata con i Motörhead. Ha pubblicato una biografia, Confessions of a Female Tour Manager, nel 2019. Non si è mai piegata agli stereotipi del rock. «La mia – ha scritto – è la storia di una donna in un mondo di uomini. Non mi ha mai interessato essere ‘uno dei ragazzi’, o di provare di essere al loro livello. Vestivo scarpe di marca e non anfibi, avevo le unghie smaltate invece dei tatuaggi e avevano una penna di Tiffany in tasca e non una brugola. In trent’ anni non ho mai corso, non ho mai urlato, non mi sono mai concessa e non mi sono mai arresa». Anche questo è rock’n’roll.