C’è tutto il mondo di Rocco Scotellaro, e l’intera sua breve esistenza, nell’Album di famiglia pubblicato, per il sessantaseiesimo anniversario della sua morte, dal Centro di documentazione intitolato al poeta-sindaco-scrittore lucano nel suo paese, Tricarico. Si parte dalla prima giovinezza da studente al convitto di Sicignano degli Alburni per arrivare ai comizi elettorali nel suo paese e ai congressi del Partito socialista, e si finisce sul letto di morte e anche oltre, ai funerali e alle commemorazioni postume.

NEL MEZZO, ci sono gli scatti in famiglia e gli incontri con i contadini che costituiranno la base del suo corpus poetico e politico, poi quelle con gli intellettuali amici che sosterranno la sua opera anche e soprattutto dopo la sua morte, da Carlo Levi a Manlio-Rossi Doria (l’ultima fotografia prima di morire, sulla sua terrazza campana), Luigi Einaudi, Franco Fortini, Adriano Olivetti, Raniero Panzieri e un altro grande poeta lucano, Leonardo Sinisgalli. Una foto lo ritrae con Amelia Rosselli nella romana piazza del Popolo. Si erano conosciuti nella capitale nel 1948, dove Scotellaro si era portato dietro le bozze di Contadini del sud, girovagarono per le osterie di Trastevere e tornarono insieme in Basilicata, a occupare le terre con i contadini che chiedevano la riforma agraria.

QUELLE CHE COMPONGONO l’Album di famiglia, edito come secondo Quaderno del Centro di documentazione Rocco Scotellaro (a cura di Carmela Biscaglia, Claudio Grenzi editore, pp. 141, euro 15), sono immagini in gran parte inedite, provenienti da sedi istituzionali (l’Istituto centrale per la demoetnoantropologia del Mibact, l’Archivio fotografico moderno, l’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo, l’Archivio di stato di Matera – Fondo Rocco Mazzarone) e da raccolte private dei familiari o di amici. Sono opera in parte di grandi fotografi italiani come Fosco Maraini, Michele Gandin, Mario Carbone e Mario Cresci. Per il resto si tratta di scatti privati, che testimoniano la profonda aderenza delle parole del poeta-scrittore al mondo che raccontava e la sospensione tra due mondi apparentemente inconciliabili, quello delle origini contadine e quello della cultura, «che gli propiziò sicuramente i significati alti della sua poesia, ma anche una profonda tensione e una profonda lacerazione esistenziale che egli cercò di ricomporre nelle sue opere», scrive l’antropologo Francesco Faeta nel breve saggio che introduce il libro.

«L’OSSERVATORE può iniziare a guardare queste fotografie come documento di una vita breve, perennemente in bilico tra retroterra contadino e movimento intellettuale e politico per l’emancipazione del Mezzogiorno, tra difficoltà quotidiana e poetico sentimento del vivere», scrive ancora Faeta. Tra le tante immagini, di valore generalmente più intimo che artistico, la più significativa mi pare essere quella in cui Rocco Scotellaro conversa con Michele Mulieri, il contadino-falegname la cui storia apre Contadini del sud, «figlio del tricolore ma pieno di dolori burocratici, avventuriero grande invalido», che piantò un tricolore listato a lutto all’ingresso della repubblica che aveva fondato tra casa sua, un terreno e uno spaccio di generi alimentari e bevande chiamato «Ristoro dell’anno santo» forse perché costruito nel 1950, l’anno del Giubileo.

L’ANARCHICO individualista Mulieri è una figura emblematica di quella che Scotellaro definì come la «zona grigia del risveglio contadino», dove alla caduta del fascismo «allignò una sorta di qualunquismo povero, fatto di impulsi e di reazione non organizzati».
Allo stesso tempo è un personaggio scomodo, non meno degli altri tre protagonisti di Contadini del sud, che ispirarono due stroncature comuniste d’autore quali quella di Mario Alicata su Cronache Meridionali e una seconda di Giorgio Napolitano sulla rivista Incontri oggi, all’indomani della pubblicazione postuma del libro da parte dell’editore Laterza. Per quest’ultimo, i protagonisti del libro non erano «figure rappresentative del mondo contadino meridionale».

AL CONTRARIO, Mulieri era forse il personaggio che meglio riassumeva quella «civiltà» che andava scomparendo, alla vigilia dell’ingresso in una modernità che Rocco Scotellaro non farà in tempo a vedere ma che, il poeta-scrittore ne era convinto, sarebbe riemersa qua e là in forme inconsuete. Per chi è entrato almeno una volta nel mondo dei Contadini del sud, colpisce vedere quanto la figura letteraria dell’anarcoide bracciante di Tricarico rassomigli a quella immortalata con le braccia aperte, «in una posa ampia e retorica» come la definisce Faeta, mentre Scotellaro lo ascolta con attenzione.