«Qualcuno mi ha fatto notare che sebbene sia un libro che parla di tabacco ci sono pochi fumatori» – afferma Rocco Rorandelli (Firenze 1973, vive e lavora a Roma) parlando di Bitter Leaves (Foglie amare), il libro fotografico pubblicato da Gost Books (2019) – «È vero, nel senso che volevo andare oltre. In una foto c’è un uomo indiano il cui lavoro è assaggiare il tabacco bidi: in base alla sua valutazione l’intermediario stabilisce il prezzo di vendita. In un’altra c’è un bambino, a Jakarta, che fuma. Oltre il 30% dei bambini indonesiani comincia a fumare a meno di 10 anni. Ho voluto raccontare l’aspetto dell’intangibilità del tabacco in altri modi».

Membro fondatore del collettivo TerraProject con Michele Borzoni, Simone Donati e Pietro Paolini, il fotoreporter ha sviluppato questo progetto facendo ricerche e fotografando, tra il 2010 e il 2017, le criticità della realtà globale legata all’industria del tabacco con le conseguenze sull’uomo, sull’economia e l’ambiente. Le fotografie saranno esposte a settembre in occasione della personale Bitter Leaves a Villa Bottini, Lucca nell’ambito del Photolux Festival 2021, diretto da Enrico Stefanelli, posticipato rispetto alle date iniziali a causa dell’emergenza sanitaria.

Dalla dolorosa vicenda personale della morte di tuo padre per una malattia legata al fumo, hai iniziato a lavorare sull’industria del tabacco viaggiando in Indonesia, India, Cina, Germania, Bulgaria, Nigeria, Slovenia, Stati Uniti e anche in Italia…

Rocco Rorandelli (ph Manuela De Leonardis)

Sì, il progetto parte da una vicenda personale. All’epoca ero anch’io un fumatore. Mi resi conto che fumavo ma non sapevo bene cosa stessi fumando, così mi misi a leggere tutto quello che trovavo sul tabacco. Mi colpì quanto fosse un tema ricco di spunti, sia quelli più evidenti legati alla salute che a livello di sviluppo, lavoro, ambiente. Quella del tabacco è un’industria presente in maniera tentacolare in tantissimi paesi. Più mi addentravo nella ricerca e più scoprivo che poteva essere uno spunto per fare un discorso più ampio e critico. C’è, poi, la questione etica. Per prima cosa l’uso della nicotina porta a diventare dipendenti. Bisogna anche essere coscienti che ogni scelta porta con sé conseguenze che non toccano soltanto il consumatore finale, ma tutti gli anelli della catena. Misi insieme tutte queste considerazioni e decisi di buttar giù un progetto. Ci misi oltre un anno, consultai esperti e andai anche al WHO-The World Health Organization di Ginevra per raccogliere altre informazioni. Decisi di autofinanziare il progetto e viaggiai in India e in Cina dove c’è il mercato più grande dell’industria del tabacco con il maggior numero di consumatori e produzione. Dopo quei primi due capitoli presentai il lavoro a Geo France dicendo che se avessi aggiunto l’Indonesia, lo sguardo sarebbe stato ancora più interessante. Andare lì mi ha permesso di costruire il nucleo principale del lavoro al quale, negli anni, si sono aggiunti gli altri.

Qual è per te il rapporto tra presunta oggettività della fotografia, lentezza, rigore e qualità estetica?
L’«oggettività» si lega ad alcuni elementi che sono fondamentali nel mio lavoro, intanto avere una base giornalistica o scientifica il più solida possibile. Ho cercato elementi reali comprovati da rapporti e studi, percentuali di fumatori, luogo dove è avvenuto un certo fatto… per avere una presenza costante dell’informazione corretta dietro ciascuna foto. È chiaro che poi c’è la mia visione. L’estetica nella fotografia è anche il mezzo che permette a più persone possibili di incuriosirle e farle avvicinare a quell’immagine, facendo sì che si ancori alla loro mente. Naturalmente quando si lavora nella fotografia documentaria alcune foto sono inserite perché esteticamente più valide, altre perché a livello giornalistico sono più importanti. C’è un compromesso, diciamo pure un costante dialogo, tra contenuto e contenitore.

La scelta del formato quadrato e del colore è determinante nella tua visione?
Per Bitter Leaves ho fotografato sia in pellicola a colori con l’Hasselblad, che in digitale con la Canon attaccata al collo, scattando di nascosto nelle aziende cinesi. Altre foto, quelle negli Stati Uniti, sono state fatte con l’Hasselblad digitale, avendo vinto nel 2011 il grant del Fund for Investigative Journalism. Ho cercato di rappresentare quello che vedevo in una maniera che fosse il più realistico possibile, attraverso il colore con l’uso di una post produzione molto pulita, senza mascherature. Il quadrato semplifica molto la costruzione dell’immagine ed è più diretto. In particolare, l’uso dell’Hasselblad determina quel portamento che discosta molto il fotografo dal soggetto, perché abbassando il volto sull’apparecchio non si guarda più il soggetto negli occhi. Una costruzione dell’immagine che si avvicina un pochino all’approccio quasi scientifico che ho voluto mantenere per questo lavoro e che è legato alla mia formazione. Era come osservare il mondo attraverso un microscopio.

Infatti hai una laurea in Scienze Naturali e il dottorato di ricerca in Etologia ed Ecologia Animale…
Ho fatto una parte del mio dottorato a New York, dove andai nel 2000. Poi c’è stato l’11 settembre e decisi di tornare in Italia, continuando a collaborare da Firenze con il Museo di Storia Naturale di New York. Rimasi traumatizzato dall’esperienza dell’11 settembre. Quel giorno avevo la pellicola in bianco e nero nella macchina fotografica che era sempre con me. Fotografai Ground Zero senza più niente. Ricordo che rimasi bloccato a Manhattan, all’epoca stavo a Brooklyn, perché chiusero tutti i ponti e solo quando li riaprirono tornai a casa in bicicletta. All’epoca la biologia che studiavo era molto accademica, tematiche legate al comportamento animale molto belle ed interessanti però anche autoreferenziali. Mi mancava il legame con la società e il mondo attuale.
Fu fondamentale frequentare due workshop estivi, in due anni diversi, del Toscana Foto Festival con Francesco Zizola e Ferdinando Scianna. Due personalità dirompenti e bellissime. Entrambi mi hanno influenzato nel seguire l’idea del ruolo sociale del fotogiornalismo. Finito il dottorato pensai che avrei potuto provare a realizzare quest’idea. Nel frattempo, per strade diverse, nel 2004 conobbi Michele, Simone e Pietro e insieme, due anni dopo, fondammo Terra Project.

Lecito e illecito sono sul filo di una narrazione documentaristica che talvolta lascia intuire, mentre altre mostra più esplicitamente i meccanismi malati dell’industria del tabacco: dalle piantagioni in North Carolina all’ultramoderna fabbrica di sigarette a Yuxi (Cina); dalla ragazzina in controluce in un magazzino in India alla paziente nel reparto di chirurgia dell’Istituto Europeo di Oncologia a Milano, fino agli scatoloni confiscati di sigarette di contrabbando a Benevento… Tra queste storie ce n’è una che ti ha colpito particolarmente?
Il tema del lavoro minorile negli Stati Uniti e in Canada è molto interessante e per nulla scontato. Tutte le volte che si parla di lavoro minorile, infatti, si pensa magari alla Tanzania o alla Bulgaria. Forse, però, ad avermi colpito è il discorso del tabacco illecito, una storia che raccoglie molte delle contraddizioni che si possono trovare all’interno di questo libro. Da una parte un pacchetto di sigarette prodotto, o importato, in maniera illecita significa che i proventi delle sue vendite non vanno nelle casse dell’azienda del tabacco. Quindi da una parte c’è la lotta dell’industria del tabacco contro il mercato illecito, dall’altro però i documenti interni delle aziende mostrano che c’è sempre stato un interesse da parte loro di mantenere vivo il contrabbando, perché questo riesce a far infiltrare il consumo di sigarette laddove la tassazione alta, il controllo ed altre ragioni non lo permettono. Il bambino che ho incontrato un anno fa al mercato, a Napoli, con i pacchetti di sigarette di contrabbando, li vendeva a poco a chiunque, anche a un ragazzino di 15 anni che non potrebbe comprarlo. Non è tanto il prodotto ad essere venduto, quanto un’abitudine. Se vogliamo essere un po’ maliziosi è questo l’investimento della grande azienda: creare una dipendenza a prescindere da quale sia il mezzo utilizzato. Una dipendenza che quando il bambino è adulto, e magari ha due soldi in più, gli permetterà di comprare le sigarette di marca.