Centinaia di personaggi, migliaia di voci, un milione di battute, e forse un solo mood. Un unico complesso stato d’animo, risultato di un inestricabile amalgama di ansia da prestazione e desiderio d’approvazione, fragilità e tenerezza, insicurezza e genialità, solitudine interiore e foga esteriore. Manifestazione in tutti i modi possibili e immaginabili, ma solo per nascondere il vero io alla base di tutti gli altri chiamati a rendersi personaggio e/o persona. Essere nel certo della voce, della raffica di parole e gesti, ma subito dopo non essere, nell’improvviso del buio sul palco o per lo stop della regia. Tra alti da star e qualche basso da montagna russa, questa è stata la vita tutto compreso di Robin Williams, oggi raccontata con stima e partecipazione, dal giornalista del New York Times Dave Itzkoff, in una biografia in presa diretta, ricca di testimonianze, Storia di una vita (Mondadori, pp.495, 25€).

Robin nasce a Chicago il 21 luglio ‘51 da Rob Fitz-Gerrell Williams, figlio di un proprietario di miniere dell’Indiana, e Laurie McLaurin, aristocratica cresciuta tra gli umori di New Orleans. Anche se la 1a casa base sarebbe venuta in un sobborgo a nord di Detroit, dove il padre faceva carriera alla Ford. Si chiamava Stonycroft, ‘campicello sassoso’, ma in realtà era una grande villa antica, con tetti, soffitti e comignoli, dove in un solaio il piccolo Robin comincia a mettere a punto il suo genio di creatore solitario, tra collezioni di soldatini e fumetti, in compagnia di personaggi a cui dare voci e storie. Una casa delle favole con qualcosa d’inquietante, poi ripresa in Jumanji, uno dei suoi film più amati e temuti dai ragazzi.

La follia l’ho presa da mia madre”, avrebbe spiegato. “La disciplina da mio padre”. Due motori di cui si serve nella San Francisco Bay, quando 18enne s’iscrive al corso di teatro del college, aiutato da una verve umoristica che lo rende uno dei più promettenti. Anzi, poiché il Vietnam appare lontano (alla data di nascita era stato associato un 356, ovvero che: “perché fossi arruolato, avrebbero dovuto venire a prendermi i Viet Cong dal Kansas”), comunica al padre di aver scoperto la propria passione: “Voglio fare l’attore”. La risposta l’avrebbe raccontata con l’Oscar in mano quasi 30anni dopo: “Non c’è niente di male ad avere un sogno, ma farai meglio a imparare un mestiere, tipo… il saldatore, non si sa mai”.

Il sogno lo guida alla ‘famosa’ Juilliard di NY, dove dopo 2 anni gli indorano una pillola senza diploma: è giunto a un livello troppo alto per le loro possibilità didattiche. Ma si porta dietro un Nonno in La notte dell’Iguana di Tennessee Williams, 97enne in sedia a rotelle che dall’inizio alla fine si sforza di ricordare una poesia; il Giovinetto muto, triste e suicida tra i Sei personaggi di Pirandello; la Fata Gran di Senape nel Sogno di una notte; Harry Houdini come personaggio preferito; e un amico per sempre: Christopher Reeve.

Ad attenderlo nella West Coast c’è l’improvvisazione comica pura, tra serate e palchi di locali notturni, teatri e studi tv, dal Bla-Bla Café all’Improv, dal Comedy Store al Richard Pryor Show, fino all’agenzia Rollins & Joffe, che aveva guidato Woody Allen verso Io & Annie, e insieme a lui prese anche Billy Crystal e David Letterman, che non si perdeva nemmeno uno spettacolo di Robin, perché: “Noi eravamo solo ragazzi che facevano battute dietro il microfono, lui invece dava l’impressione di entrare in scena volando, aveva tanta energia che sembrava levitasse”.

Nonostante il Laugh-In, uno show MGM basato su duetti tra artisti fissi e guest star, dove si esibì con Tina Turner, Jimmy Stewart, Sinatra e Bette Davis (lapidaria: “C’è una sola parola di cui avrai bisogno: no”), servì un passaparola familiare per il salto del ‘78: Penny Marshall, che poi lo volle in Risvegli, ne aveva parlato alla sorella Ronny, che assisteva nel casting il fratello Garry, poi regista di Pretty Woman, che regnava sulla 5a stagione di Happy Days, e cercava qualcuno per ridare smalto a Ron Howard e Henry Winkler. Robin venne inserito nei panni dell’alieno Mork, dal suo successo nacque lo spin-off Mork & Mindy, con lui star assoluta per 5 stagioni.

Da lì 7 film, tra i quali Popeye e Il mondo secondo Garp; il suo primo figlio Zak; un lungo periodo di dipendenza da alcol e droghe; ma anche la consacrazione da protagonista completo, eclettico, premiato da nomination all’Oscar e incassi, grazie alla parte del dj Adrian Cronauer in Good Morning Vietnam (‘87), che lui ricreò quasi completamente, intorno all’attacco del suo programma radio da Saigon per le truppe americane: “Gooooood morning, Vietnam”. Il via per i suoi 10 anni d’oro: altre 2 nomination come Miglior Attore (L’attimo fuggente; La leggenda del re pescatore); i suoi campioni d’incasso (Aladdin, sua la voce al Genio della Lampada; Mrs. Doubtfire); l’Oscar per Will Hunting come Migliore Attore Non Protagonista; la stima incondizionata di Spielberg, che lo volle in Hook, Mike Nichols, con cui fece un Godot off-Broadway, De Niro e Jeff Bridges, ai quali si aggiunsero Pacino e Christopher Nolan, ancora agli inizi in Insomnia. Anni in cui divorziò e si risposò, ebbe altri 2 figli, Zelda e Cody, altre case, altre avventure professionali, e ai quali seguì una vita che restò soddisfacente ancora per qualche tempo, prima di entrare in un lungo cono d’ombra di film minori o mal riusciti, e ricadere nelle vecchie dipendenze. Dell’ultimo tempo della sua vita restano invece alcuni folgoranti numeri in stand-up, come all’AFI Life Achievement per De Niro e Pacino; per le truppe in Afghanistan, con l’urlo “Gooooood Morning, Bagram”, Irak, Kuwait e Pakistan, dove sparò battute proiettile a bersagli grossi come Bush & Co; e i cameo come Teddy Roosevelt e Ike Eisenhower (Una notte al museo, Butler).

Il suo this is the end nella notte del 10 agosto 2014 è tragico e triste: si suicidò in silenzio e solitudine, non riuscendo a portare il peso di una malattia aggressiva che gli stava rubando gli attrezzi dalla borsa: memoria, parola, movimenti. Non si può ricordarlo per questo. Meglio riascoltarlo mentre nei panni del professor Keating dice ai suoi studenti, facendoli avvicinare a una vetrina di vecchie foto: “Cogli l’attimo, cogli la rosa quand’è il  momento. Perché il poeta usa questi versi? Perché siamo cibo per i vermi, ragazzi. Perché ognuno di noi, un giorno smetterà di respirare, diventerà freddo e morirà. Guardate questi visi del passato. Non sono molto diversi da voi, vero? Stesso taglio di capelli, pieni di ormoni, come voi, invincibili, come vi sentite voi. Pensano di essere destinati a grandi cose, come molti di voi, i loro occhi sono pieni di speranza, proprio come i vostri. Avranno atteso finché non è stato troppo tardi per realizzare almeno un briciolo del loro potenziale? Perché vedete, questi ragazzi, ora, sono concime per i fiori. Ma se ascoltate con attenzione, li sentirete bisbigliare il loro monito. Sentite? – Qui la voce si fa un bisbiglio – Caarpee, Caaaarpeeee, Caarpe dieem, cogliete l’attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita!” Come è stata straordinaria quella di Robin Williams. Poi, se vi va, salite su un qualche rialzo e, guardando lontano, lanciate alla giornata che vi aspetta un “Capitano, mio Capitano”: dovunque egli sia, ne avrà piacere.